Meloni, retromarcia su Roma in 100 giorni

Bisogna soffermarsi un attimo su questa risposta. La si sentirà ripetere più volte, nel racconto dei primi tre mesi della destra al governo. «È cambiato il contesto, solo una persona in malafede non lo capirebbe». Declinabile in tanti modi – geopolitico, economico, sanitario – è il famoso contesto che spesso sfugge quando si sta adagiati sui più comodi cuscini dell’opposizione.

Come per le accise sulla benzina. Gli archivi ai tempi dei social sono impietosi. Spunta un video del 2019 in cui la futura premier si faceva beffe delle vecchie imposte risalenti anche a 70 anni fa, promettendo un taglio netto una volta che FdI avrebbe conquistato il governo. Anche nel programma con cui il partito si lancia verso la vittoria del 2022 è scritto che il taglio ci sarà. Condizionato a maggiori entrate, ma ci sarà. E invece: lo sconto previsto da Draghi sulle accise va a scadenza al 31 dicembre e non viene rinnovato. La risposta è quella di prima. Il contesto: «Non sfugge ai più che il mondo è cambiato rispetto al 2019 e stiamo affrontando una situazione emergenziale. Io non ho promesso di tagliare le accise sulla benzina in questa campagna elettorale perché sapevo in che situazione mi sarei trovata». È così? 11 settembre 2022 (non il 2019), comizio in piazza Duomo a Milano: «Se la bolletta aumenta, aumentato gli introiti. Prima regola: su tutto l’aumento lo Stato non si prende né le accise né l’Iva. Altra cosa che può essere fatta subito». “Subito” è un concetto temporale molto relativo. Ora, i fedelissimi di Meloni come il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari promettono il taglio entro i 5 anni di legislatura.

Sta di fatto che l’opinione pubblica non apprezza. E Meloni rimane spiazzata. L’effetto dei giorni seguenti è paradossale. Perché il governo che orgogliosamente aveva scelto di non confermare il taglio, provocando un aumento dei prezzi, tuona contro generici «speculatori», in un gioco d’ombre in cui si percepisce il tentativo goffo di cercare un colpevole e, assieme, l’ansia di correggere la rotta. Che Meloni manifesta in un video in cui prova a dare la sua versione dei fatti.

A parte la tappa obbligata del tradizionale confronto di fine anno, in cui si è sottoposta a tre ore di domande, la premier non incontra i giornalisti da due mesi, dal 22 novembre, giorno in cui battibeccò con alcuni di loro. Ha evitato di farlo, unica tra i leader dei Paesi maggiori, anche al termine del suo primo Consiglio europeo, a metà dicembre. Preferisce farsi le domande e darsi le risposte da sola con la rubrica “Gli appunti di Giorgia”, appuntamento ormai fisso, che Meloni usa per parlare direttamente ai cittadini quando le ricostruzioni dei giornali non le piacciono o quando gli inciampi rispetto alle promesse rischiano di diventare imbarazzanti. O deludono le categorie coccolate da sempre, come tassisti e balneari.

Il caso più eclatante è la norma sul limite all’utilizzo obbligatorio del Pos. La destra lo vuole portare a 60 euro. E annuncia che lo farà in manovra. Un’enormità che secondo la Commissione europea rischia di vanificare la lotta all’evasione, prevista come obiettivo del Pnrr. Bruxelles soffoca la norma sul nascere, ma questo non impedisce a Meloni di scatenare il sempre vigile e fidato Fazzolari contro Bankitalia, accusata di favorire le speculazioni delle banche. Fino alla capitolazione. Che prima di Natale la premier giustifica di nuovo in video, con l’agendina in mano: «Imporre vincoli sul Pos sarebbe incostituzionale».

Nel rapporto con l’Europa c’è un po’ il senso della svolta che sta tentando Meloni, da fiera erede della fiamma post-fascista a conservatrice del nuovo Millennio. Non urla più contro l’Unione europea dei «burocrati franco-tedeschi» che schiacciano il tacco sulla debole Italia. L’amore per l’autocrate di Budapest Viktor Orban si è un po’ appannato. Sceglie Bruxelles e le istituzioni europee per la sua prima visita ufficiale, e non le capitali dei duri di Visegrad. Entrata a Palazzo Chigi, Meloni ha scoperto quanto sia necessario muoversi lungo l’asse Parigi-Berlino. In ballo c’è la trattativa vitale sulle modifiche al Piano nazionale di ripresa e resilienza (che FdI non votò all’Europarlamento), e poi, nei prossimi mesi, la travagliata riforma del patto di Stabilità.

Come per incanto, l’Europa è diventata per Meloni un interlocutore con cui dialogare volentieri, senza avventurarsi sull’extradeficit come qualche tempo fa, non troppo tempo fa, prometteva di fare. Il sovranismo ha trovato la sua nemesi e il suo paradosso. Oggi è la Germania a chiedere meno vincoli sugli aiuti di Stato alle imprese, e l’Italia cerca alleati per strutturare un nuovo fondo sul modello del Recovery contro la pandemia, e non restare impiccata al proprio debito.

Con l’Europa Meloni – un tempo anche no-euro – si deve rimangiare tutto o quasi. Il blocco navale per fermare il flusso dei migranti è già diventato altro. Si rivisita la “dottrina Minniti” sugli hotspot in Nord Africa e la tanto disprezzata redistribuzione tra i Paesi Ue si riscopre come soluzione necessaria in emergenza (di nuovo il contesto: l’emergenza). Ora tocca al Mes e alle concessioni balneari. Basta inserire una delle due parole online per imbattersi facilmente nella gemella sovranista di Meloni. «Una sola parola: tradimento. Sul Mes il governo si è sottomesso ai diktat di Germania e Olanda. Dov’è la coerenza e la dignità?». La presidente di FdI lo scriveva due anni fa, dopo il via libera alla ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Oggi è il sorriso soddisfatto del direttore generale del fondo salva-Stati Pierre Gramegna, all’uscita da Palazzo Chigi, a spiegare meglio di ogni altra cosa quale sia l’epilogo di tanti anni di battaglia campale degli euroscettici. La resa è compiuta. La presidente del Consiglio lo ha rassicurato: tra un mese o poco più, l’Italia – unico Paese a non averlo ancora fatto – firmerà la ratifica.

Sulle concessioni demaniali delle spiagge, inserite nella norma sulla concorrenza che è uno degli obiettivi previsti dal Pnrr, invece si sta disperatamente cercando un compromesso. Dentro FdI i toni si sono fatti più docili. La sentenza del Consiglio di Stato che impone le gare dal 2024 e la procedura di infrazione europea che incombe, non sono più «un esproprio del Parlamento» (parole di Meloni meno di un anno fa). Magari il governo riuscirà a strappare tempi leggermente più lunghi, ma le gare si faranno.

Nella costruzione del Grande Nemico, in questi anni, la leader ha avuto una certa predilezione per la grande finanza internazionale, per George Soros, immancabile bersaglio, per i banchieri che avrebbero allungato gli artigli «sull’oro del popolo italiano». Ebbene, come nuovo direttore generale del Tesoro ha scelto Riccardo Barbieri Hermitte, una carriera passata tra J. P. Morgan, Morgan Stanley e Merril Lynch. Segno che anche sulle nomine non c’è stata una polverizzazione delle relazioni di sistema, e i profili vengono scelti sempre con un occhio rassicurante rivolto all’Ue.

La politica italiana è un romanzo di realismo magico. Nello specchio in cui la leader si riflette, Meloni di un tempo svanisce e al suo volto si sovrappone quello di Draghi, confondendosi in esso. «Cara Europa, la pacchia è finita», disse la futura premier in campagna elettorale, e lo fece un po’per risvegliare le pulsioni di un tempo. Ma sapeva già che a Bruxelles stavano pensando la stessa cosa, riferendosi a lei.

LA STAMPA

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