L’Europa rischia l’esclusione dal grande gioco africano
Riaffiora la vecchia retorica antioccidentale. Ne approfittano la Russia e la Cina, facendo incetta di appalti
È il momento dell’Africa: contesa da tutti. La missione di Giorgia Meloni in Algeria avviene mentre i leader del mondo intero corteggiano questo continente da Nord a Sud.
Tra le ultime visite importanti: il nuovo ministro degli Esteri cinese, quello russo, e la segretaria al Tesoro americana. L’Africa attrae per ragioni evidenti. Ha risorse naturali immense, dall’energia fossile alle rinnovabili, dai minerali all’agricoltura. Malgrado la nostra visione pauperistica e catastrofista, è un mercato in espansione. In un mondo dove la decrescita demografica è arrivata anche in Cina, è una delle aree dove la popolazione cresce ed è giovane. È una posta in gioco nella divisione del pianeta in aree d’influenza geopolitiche.
In Occidente fa scalpore l’annuncio di manovre militari congiunte tra Sudafrica, Russia e Cina. La marina militare di Putin vi manderà una nave armata di missili ipersonici dell’ultima generazione. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha visitato Pretoria prima di proseguire verso l’Angola e il Botswana. Il governo sudafricano giustifica le manovre militari come «una componente naturale delle relazioni tra Paesi amici». Queste relazioni si sono rafforzate dall’inizio della guerra in Ucraina. Nei primi mesi dell’aggressione russa il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa invocò un ritiro unilaterale di Putin e si offrì come mediatore. Poi ci ha ripensato.
Ora non solo il Sudafrica non aderisce alle sanzioni, ma critica le forniture di armi all’Ucraina e contesta che l’Occidente condanni la Russia ma non l’occupazione di territori palestinesi da parte d’Israele. È la vecchia retorica antioccidentale e anticoloniale che riaffiora come nella prima guerra fredda, quando il Terzo mondo sceglieva il «non allineamento» fra i due blocchi, e al tempo stesso simpatizzava con il comunismo sovietico considerandolo un alleato nelle lotte per l’emancipazione dell’emisfero Sud.
La Cina è la campionessa su questo terreno. Pur essendo una superpotenza economica e finanziaria, ormai la principale «banchiera» di molti Paesi africani, continua a presentarsi come un Paese emergente che sta dalla loro parte contro l’avido capitalismo occidentale. Non appena nominato, il nuovo ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha scelto Addis Abeba come tappa del suo primo viaggio all’estero: capitale dell’Etiopia e anche sede dell’Unione africana. Poi ha proseguito in Gabon, Angola, Benin, Egitto. Tra i suoi slogan preferiti: «Questo sarà il secolo dell’Asia e dell’Africa».
La missione africana della segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, prende di mira l’espansionismo cinese. La Yellen denuncia le gravi difficoltà in cui versano quegli Stati come lo Zambia, eccessivamente indebitati con Pechino, e oggi alle prese con un creditore ben più esoso e rigido rispetto al Fondo monetario internazionale o alla Banca mondiale. La Yellen ha ragione, dallo Zambia al Ghana si allunga l’elenco di nazioni africane che scoprono l’altra faccia della «generosità» di Xi Jinping. Gli americani aggiungono che il titanico programma delle Nuove Vie della Seta (il nome ufficiale è Belt and Road Initiative) accumula errori e problemi. In quei mille miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali che la Cina ha disseminato nel mondo intero, ci sono opere pubbliche mal concepite, inefficienti, con danni all’ambiente, abusi contro i diritti umani. Tra gli esempi recenti vengono citate due dighe «made in China» lungo il corso del Nilo che attraversa l’Uganda: opere afflitte da una miriade di difetti di costruzione. Le critiche sono fondate però pochi altri soggetti si fanno avanti per contrastare la continua avanzata cinese in Africa, tant’è che il 60% degli appalti per infrastrutture africane sono in mano ad aziende della Repubblica Popolare.
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