Dal monito di Veltroni alle amarezze di Letta, la “guerriglia quotidiana” dei segretari Pd
Francesca Schianchi
ROMA. Forse un giorno un qualche ex segretario del Pd racconterà nei dettagli le sue giornate nella trincea di largo del Nazareno, svelerà inediti retroscena, spiegherà chiaramente chi e come ha reso la sua esperienza una “guerriglia quotidiana”, per dirla con le parole di Nicola Zingaretti al momento dell’addio. E allora finalmente capiremo meglio perché ogni abbandono della guida di quel partito – nove tra segretari e reggenti in quindici anni e mezzo – è un mesto cahier de doléances, mai una gioia, un rosario di allusioni a battaglie interne e scontri continui.
L’ultimo a denunciare «amarezze» e «ingenerosità», sabato scorso davanti all’Assemblea nazionale del partito, è stato Enrico Letta. «Ma le tengo per me», ha aggiunto: non serve dire da chi sono venute; è una questione di correnti, una volta sono gli uni, un’altra volta gli altri. Due anni fa lo avevano richiamato da Parigi dove faceva felicemente il professore: incoronato all’unanimità, il partito era a pezzi e toccava qualcuno che incollasse i cocci, pure alla svelta. Due anni dopo, lamenta una quotidianità in cui il segretario passa «l’intera giornata a comporre gli equilibri interni»; per spiegare la linea agli elettori resta appena la serata, «con le energie residue». Non ne aveva più di energie, nel febbraio del 2009, il fondatore Walter Veltroni, l’acclamatissimo primo segretario del nascente Pd, eletto da primarie frequentate da tre milioni e mezzo di persone. Un movimento di popolo mai più bissato in queste proporzioni, ma non abbastanza per preservare il segretario: «Non fate al mio successore ciò che è stato fatto a me», scandì in un affollato, amaro discorso di dimissioni appena un anno e mezzo dopo l’elezione. Passano gli anni e i leader, ma evidentemente l’antico vizio della guerra tra correnti non trova una tregua, se nel 2019 Nicola Zingaretti getta la spugna con un fiammeggiante post su Facebook: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da venti giorni si parli solo di poltrone e di primarie».
Parole forse ancora più taglienti di quelle usate qualche anno prima da Pier Luigi Bersani, che pure qualche ragione per essere furioso ce l’aveva: tutte le lacerazioni del partito erano lì, squadernate in quel voto fallimentare su Romano Prodi presidente della Repubblica, 101 traditori (probabilmente di più) che avevano applaudito la proposta la sera prima, per accoltellare candidato e segretario l’indomani nel segreto dell’urna.
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