Tre mesi di governo: la difficile strada del rigore
Talvolta ancora frenando gli spiriti bellicosi della sua stessa maggioranza, dei «giapponesi» che vorrebbero continuare a combattere guerre del passato. Come quella contro la magistratura: a Nordio è stato consigliato di puntare sulla rapidità del servizio giustizia, piuttosto che sulla polemica contro le procure. O come il tentativo di reintrodurre surrettiziamente gli aspetti più controversi dei decreti Salvini sui migranti: i presidenti di commissione di Fratelli d’Italia e di Forza Italia hanno dichiarato inammissibili gli emendamenti leghisti.
Questa aspirazione all’ordine, questa scommessa sul principio di autorità, fanno del centrodestra al governo qualcosa di molto diverso da quelli del passato. Nei quali prevaleva piuttosto l’impronta liberista del «laissez faire, laissez passer» dei primi passi di Berlusconi, e poi il ben più corposo conflitto tra i suoi interessi aziendali e quelli pubblici. Oppure ancora il filone quasi anarchico che portava la Lega di Bossi prima, e ancor più quella di Salvini dopo, verso il «poujadismo» delle piccole patrie e delle singole categorie, assumendo spesso i tratti di una vera e propria rivolta fiscale secessionistica.
Non è naturalmente detto che le pulsioni antiche del centrodestra italiano e del suo elettorato non finiscano con il prevalere anche stavolta. La sfida di Giorgia Meloni corre infatti due seri rischi. Il primo è che per restaurare il principio di autorità bisogna essere molto bravi e molto seri. La frenesia con cui fu varato il decreto «rave party» è un esempio di quanto possa essere abissale la distanza tra lo Spirito Assoluto di Hegel e il «Federale» di Ugo Tognazzi. Se non si procede con serietà e rigore, il ridicolo è dietro l’angolo. E nel ridicolo affondano anche le migliori idee.
Il secondo rischio è meno soggettivo e più legato alla realtà del Paese: reggerà l’opinione pubblica a un cambio di passo, a un’inversione della prassi del favoritismo e del corporativismo, della contrattazione individuale o di gruppo con lo Stato, cui è stata a lungo abituata, e con la quale ha flirtato per anni, soprattutto al Sud, lo stesso partito della premier? Riuscirà a prevalere l’interesse collettivo, e dunque nazionale? O alla prima tempesta un po’ più seria dell’aumento del prezzo della benzina i sondaggi segnaleranno che gli italiani preferirebbero tornare a un tran tran più rilassato, e a uno Stato più sfasciato ma per questo anche più assente e generoso? A quel punto, che farà Giorgia Meloni?
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