Conte e Salvini, i desaparecidos della pace
Alessandro De Angelis
Se non ci fosse il Sanremo della politica – Zelensky sì, Zelensky no – che ha rimescolato gli schieramenti catodici, forse la notizia sarebbe uno dei più grandi rivolgimenti politici degli ultimi tempi: l’appannamento del “populismo pacifista” o, se preferite, del “pacifismo populista”. Paradosso che, forse, ne disvela tutta la carica di strumentalità.
C’era una volta, con Mario Draghi a palazzo Chigi, Matteo Salvini, che, un giorno sì e l’altro pure, chiedeva lo stop all’invio delle armi: talvolta, in versione francescana, ricorrendo alla retorica della preghiera, altre volte, in versione “aspirante Cassandra” evocando sciagure economiche e perdita di posti di lavoro, altre offrendo, con la collaborazione dell’ambasciatore Razov la sua expertise filo-russa per volare a Mosca nei panni del diplomatico. E c’era una volta Giuseppe Conte che contestava quell’aumento delle spese militari da lui sottoscritto, che chiedeva, anche lui un giorno sì e l’altro pure, un dibattito in Parlamento sulla guerra, per poi scegliere questo terreno, quando nei sondaggi andava di moda, come il principale per logorare il governo e rompere con il Pd.
Fine dell’amarcord, inizio del paradosso: nel momento in cui è in atto un oggettivo salto di qualità del conflitto con annesso rischio di un suo allargamento, e una importante assunzione di responsabilità anche dell’Italia (come invio di strumenti di difesa e aumento della spesa) Matteo Salvini e Giuseppe Conte sembrano desaparecidi, in materia di pacifismo. Poche dichiarazioni di circostanza sulla necessità di “una iniziativa diplomatica” che non c’è stata fino a qui, figuriamoci ora; poche interviste sul tema, ben al di sotto dei loro standard; lo spin orientato su altro (il primo su strade, Gronda e Ponte sullo Stretto teso ad accreditarsi come “uomo del fare”, il secondo più sul sociale, teso a intercettare il malessere degli ultimi). Conoscendo il potere di fuoco delle rispettive “bestie”, questa distrazione non è casuale. L’uno (Salvini) ha scelto di non suonare il controcanto al premier per ora, perché non ne ha la forza e perché non è il momento: meglio aspettare che si logori un po’ sperando di arrivarci meno ammaccato possibile. E poi sa che attaccare sul vincolo esterno, come faceva con Draghi, significa indebolire il governo nelle sue fondamenta e non può permetterselo. L’altro (Conte), a proposito di paradossi, ha votato contro l’invio di armi in Parlamento, ma è sembrato un atto dovuto, privo di drammatizzazione.
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