Se Giorgia sapesse governare
Alessandro de Angelis
A meno di clamorose sorprese – l’aria che tira è questa – avrà gioco facile Giorgia Meloni a dire, tra una settimana esatta, che la vittoria in Lazio e Lombardia (mica Roccacannuccia) è il segno che il governo gode della fiducia degli italiani. Il palco dell’Auditorium racconta proprio la consapevolezza di questa posta in gioco. E non a caso negli ultimi giorni si registra un certo attivismo del premier, più in versione “Donzella” che statista (così piace alla sua curva).
Bene (anzi male): pensate adesso allo scenario contrario: sconfitta nel Lazio e partita all’ultimo voto in Lombardia. Si parlerebbe dei primi scricchiolii, poi partirebbe il solito film di qualche alleato che chiede di cambiare registro, qualcuno avanzerebbe qualche critica su cento giorni di retromarce e rinvii. E, forse, anche su questa cagnara attorno al caso Cospito. Persa l’aurea dell’imbattibilità, forse anche la nostra si porrebbe il problema di governare il paese non come un campo Hobbit.
E invece, se possibile, può contare sulla granitica complicità delle opposizioni, incapaci (e qui la principale responsabilità è di Conte) di andare unite anche laddove governavano assieme, sostenendo un assessore uscente, peraltro eccellente. Per Conte, in versione “tanto peggio per gli altri, tanto meglio per me”, l’obiettivo non è battere la destra, ma prendere un voto in più del Pd “da sinistra”. Calenda nemmeno ha deciso cosa farà da grande se non, anche lui, prendere voti al Pd, ma “da destra”. E il Pd s’è perso dentro la “vocazione minoritaria” di un congresso separato dalla realtà, il cui fallimento sta tutto in un numero: 24. Tanti i votanti a Mirafiori e, per carità di patria, tralasciamo le baruffe dei candidati sui numeri in giro per l’Italia. C’è un mondo in quel “24”: le cause della sconfitta, la catastrofe politico-culturale di questi anni, un congresso che – tra manifesti, Statuti, dibattiti su chi farà il vicesegretario – ossifica la sconnessione sentimentale e la perdita di una ragione sociale. Parafrasando Eliot, il dibattito è aperto: se sono i fedeli ad aver abbandonato la Chiesa o la Chiesa ad aver abbandonato i fedeli. O forse le due cose stanno perfettamente assieme.
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