Il boss davanti alla tv
Dall’affollata solitudine del suo 41 bis, Matteo Messina Denaro sostiene che su di lui la tv racconta soltanto balle. Più o meno è quello che della tv (e dei giornali) dicono tutti coloro che ci finiscono in mezzo.
Nel caso di Messina Denaro, però, alcune decine di sentenze sembrano suffragare il ritratto fornito dai media.
Quindi, o il capomafia ha scordato i delitti che ha commesso, oppure
pensa che, nel suo sistema distorto di valori, non siano delitti ma
opere di bene. In entrambi i casi, abbiamo la prova di quanto sia
difficile, persino per un cattivo certificato, accettare di esserlo e
soprattutto di essere raccontato come tale.
Il cattivo
preferiamo immaginarlo come nei film di James Bond, gongolante per la
sua perfidia e orgoglioso della patente di mostro che gli viene
attribuita. Mentre, nella vita vera, per poter frequentare la cattiveria
senza impazzire ci si deve convincere di essere in missione per conto
di Dio, dell’umanità o almeno della propria comunità (quella mafiosa, in
questo caso).
D’altro canto, a distinguere l’eroe negativo da
quello positivo è la sua incapacità di evolvere nel corso della trama.
Il principio-cardine di ogni sceneggiatura mi è tornato alla mente
ascoltando lo sfogo telefonico di Messina Denaro bloccato in un ingorgo
nei pressi di Capaci durante le commemorazioni di Falcone: sembrava il
personaggio di «Johnny Stecchino» quando rivela a Benigni che la piaga
di Palermo è il traffico.
CORRIERE.IT