La battaglia dello Spid: senza un accordo a metà aprile il 95% dei servizi non sarà più accessibile
Arcangelo Rociola
ROMA. Spid è a un bivio. Il sistema pubblico di identità digitale, a otto anni dalla sua nascita, affronta il suo primo vero momento di crisi. Le convenzioni con i gestori sono scadute il 31 dicembre scorso. Sul loro rinnovo non c’è un accordo né una proposta. E al momento non è nemmeno chiara la volontà del governo, visto che in qualche occasione si è mostrato poco convinto di Spid come strumento cardine per l’identità digitale degli italiani.
Le prossime settimane sono già decisive. Ieri, secondo quanto ha confermato a La Stampa Agid, si è tenuto un primo incontro tra il direttore generale dell’agenzia, Francesco Paorici, e le undici aziende autorizzate a erogare le credenziali Spid. Un incontro che si sarebbe svolto in un clima «sereno» riferiscono fonti che preferiscono restare anonime. Ma che ha visto emergere le posizioni in campo. I gestori chiedono due condizioni per continuare a erogare il servizio. La prima: rendere Spid economicamente sostenibile. Oggi – viene spiegato – lo Stato dà alle aziende un milione di euro complessivi l’anno per il servizio. Ma i volumi sono aumentati e i costi di conseguenza. E si chiede che la cifra arrivi a 50 milioni da dividere tra gli operatori in proporzione alle identità gestite. La seconda è forse più delicata: gli operatori vogliono essere coinvolti nel caso in cui agenzia e esecutivo dovessero ripensare il futuro stesso dell’identità digitale degli italiani. Finora, è il ragionamento, il loro servizio ha consentito a milioni di italiani di dotarsi di un’identità digitale. E il governo non può non tenerne conto. Condizioni che, se non soddisfatte, potrebbero portare almeno il 95% degli identity provider a cessare il servizio il prossimo 22 aprile. Giorno in cui termina la proroga dei contratti, scaduti lo scorso 31 dicembre come anticipato da Wired.
Entrambi i punti non sono facili da soddisfare. Spid a oggi è usato da 33,5 milioni di italiani. Solo nel 2022 ha consentito un miliardo di autenticazioni online. Nella sua categoria, è il servizio pubblico più usato in Europa. Un record. I suoi numeri e l’affidabilità dimostrata in questi anni in termini sicurezza sembrano dimostrare che il sistema funziona. Funziona, ma non convince tutti. Almeno nell’esecutivo. Lo scorso dicembre il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alessio Butti, ha detto che il sistema doveva cominciare ad essere «spento», in favore della Carta di identità elettronica per evitare spese eccessive per lo Stato. Dichiarazione che ha allarmato gli operatori e l’associazione che li rappresenta, Assocertificatori.
È questo il motivo per cui le aziende chiedono chiarezza (la più coinvolta è Poste, che ha erogato l’80% di Spid in circolazione). Senza di loro, Spid non può esistere. Se non dovessero essere accontentate e dovessero restare sulla linea dura, il sistema imploderebbe. È un sistema pensato per appoggiarsi a un ente terzo chiamato a certificare l’identità di chi accede online alla Pa. Quasi impossibile pensare che un ente statale ne possa prendere il posto dall’oggi al domani. La richiesta economica è importante, ma secondo gli operatori è il minimo per rendere il servizio sostenibile, considerati i costi di gestione, di call center e di intervento: 50 milioni, sostengono, è meno di quanto la pubblica amministrazione risparmia usandolo.
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