Il digitale e le regole antiche contro offese e anonimato
La vita virtuale sostituisce la vita reale. Le relazioni tra le persone non sono più fisiche ma digitali. Però nelle piazze elettroniche si possono commettere impunemente reati che in quelle fisiche sono giustamente perseguiti. Questo non può continuare a lungo.
È troppo facile offendere una persona sui social.
È troppo facile minacciarla, ingannarla, danneggiarla, rovinarla.
È troppo facile estorcere denaro a un anziano, una foto intima a un adolescente, fiducia a chiunque di noi.
E tutto questo accade perché è troppo facile aprire profili «fake» o comunque anonimi, dietro cui celare la propria vigliaccheria.
Si potrebbe replicare: questi reati esistono già. La diffamazione. La sostituzione di persona, quando si finge di essere qualcun altro. Il furto d’immagine, quando si usa la foto di un altro. Ma la macchina giudiziaria italiana era farraginosa già quando la vita virtuale non esisteva; figurarsi ora. Basta conversare con qualsiasi agente della polizia postale per rendersi conto che sta tentando — con abnegazione e professionalità — di svuotare il mare con un cucchiaio. Può intervenire sui casi più drammatici, nella speranza che non sia troppo tardi (rintracciare chi si nasconde dietro un profilo fake non è impossibile). Ma è evidente che la soluzione non può essere solo reprimere. Occorre prevenire. E l’unico modo è obbligare i padroni della rete a non consentire più l’apertura di profili falsi o comunque anonimi.
Facebook, Instagram, Twitter, TikTok, Twitch, ma anche Google e Amazon sono ormai i più grandi editori del mondo. Sono abituati a non produrre e a non pagare i materiali che diffondono, a rastrellare la pubblicità digitale, a versare le (poche) tasse dove conviene. Obblighiamoli almeno a non diventare complici involontari di reati. A non consentire ai loro utenti di danneggiarne altri.
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