Putin ci trascina nella terra inumana

Questa è la folle e farlocca “Dottrina Putin”, ormai predicata e praticata a viso aperto, di fronte ai 350 della Duma di Stato o agli 80 mila dello Stadio Luzhniki. Questa è la sfida che abbiamo di fronte ora e nei prossimi mesi, forse nei prossimi anni. Una guerra che durerà, e non sarà “corta” come invece spera il presidente ucraino, che giustamente ci chiama all’appello: «Aiutate il mio paese, perché la nostra guerra è anche la vostra guerra». Non fa una piega: è la conseguenza logica dei proclami di Putin. Verrà un tempo, si spera, nel quale ci chiederemo anche chi è Zelensky, cos’è e cosa è stato il suo governo, quanto ha nutrito i fenomeni corruttivi o colpito i russofoni del Donbass. Ma non è adesso. Adesso possiamo e dobbiamo solo supportare la Resistenza ucraina, anche se non ci è chiaro fin dove ci sarà chiesto di spingerci con gli aiuti militari. In 365 giorni siamo passati dai Javelin anticarro agli Abrams e ai Leopard II. Ora stiamo già discutendo di caccia F-16, e poi chissà cos’altro. I capi di Stato e di governo si adoperano per scongiurare la famosa “escalation”. Ma viene da chiedersi, premettendo che non possiamo sottrarci, se in realtà non ci siamo già dentro.

Il Disordine Mondiale innescato dall’invasione russa, mentre li stravolge, ridisegna gli equilibri geopolitici ed economici del pianeta. L’America di Biden torna protagonista della scena. “Sleepy Joe” si è infine svegliato, e come dimostra l’abbraccio a Zelensky e poi il discorso al Castello Reale di Varsavia, il presidente degli Stati Uniti riafferma la leadership dell’alleanza euroatlantica, che di fronte alla minaccia russa ambirebbe ad essere molto di più di un patto militare. Finora, tra mille difficoltà e qualche distinguo, il fronte occidentale tiene. Persino l’Europa – sempre in cerca di un suo numero di telefono, per usare la metafora di Kissinger – regge l’urto delle istanze sovraniste dei singoli stati membri e delle ansie pacifiste delle opinioni pubbliche. Non sappiamo se e quanto durerà, man mano che gli eserciti avanzano e i morti aumentano. Sappiamo però che anche il fronte opposto resiste, perché a fianco della Russia c’è l’altra metà del globo. La Cina di Xi, per adesso, non partecipa ma di certo non sabota. L’India, la Turchia, buona parte del mondo arabo e del continente africano, anche nel Palazzo di Vetro dell’Onu, non condannano Putin e non approvano le sanzioni contro di lui.

Se il conflitto è tra Oriente e Occidente, se la contesa è tra democrazie e autarchie, è chiaro a tutti che la guerra avrà termine solo se e quando gli Imperi decideranno di farla finire. Allo stato attuale, non pare proprio aria. La sensazione, penosa, è che nessuno abbia davvero interesse a far tacere le armi. La Russia, per ovvi motivi ideologici e strategici, a questo punto deve solo vincere o perire. L’America non è poi così dispiaciuta che Mosca si logori e si snervi nelle trincee ucraine, perché questo gli consente di concentrare gli sforzi sull’unico vero avversario che teme, cioè la Cina, con la quale si gioca il primato globale dell’industria e della tecnologia dei prossimi trent’anni. Per ragioni uguali e contrarie, la Cina non interviene a fianco dell’amico Vlady, anche per non sprecare energie preziose che potrà e forse vorrà spendere su un altro “scenario” che gli sta molto più a cuore, proprio perché è lì che fronteggia con più intensità il rivale americano: il quadrante Indo-Pacifico, a partire dalla Questione Taiwan.

Se a questo aggiungiamo che persino alla colossale crisi energetica esplosa insieme alla guerra ognuno degli attori sulla scena sta trovando un parziale accomodamento, allora il quadro si fa ancora più chiaro. Lo choc della de-globalizzazione, che subito dopo il 24 febbraio 2022 è stato un incubo per tutti, sembra meno drammatico del temuto. Il mercato del gas e del petrolio sta trovando le sue compensazioni. L’Europa accelera sulle rinnovabili, compra più metano dal Nord Africa e più Gnl dall’America, che fa affari d’oro vendendolo a caro prezzo. La Russia dirotta buona parte dei suoi fossili verso l’Est e verso il Sud, riuscendo persino a segnare una lievissima ripresa del Pil nel 2022. Il commercio mondiale non si ferma. Le due aree del mondo divise lungo la faglia ucraina si riconvertono e sviluppano due globalizzazioni parallele e indipendenti. È un meccanismo instabile e imperfetto, ma sufficiente ad attenuare (e in qualche caso persino annullare) gli impatti della recessione post-bellica.

Vorremmo commentare questo tragico anno di guerra con un fondo di speranza. Ma non è possibile. Sappiamo bene che l’Ucraina non può perdere la guerra, e che la Russia non deve vincerla. Sappiamo ancora meglio da che parte stare. Ma ha ragione Jurgen Habermas, che sulla Suddeutsche Zeitung scrive che i governi occidentali devono «prendere decisioni importanti e assumersene le responsabilità». Non possiamo scaricare solo su Kiev il peso delle «brutali conseguenze di un prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto». Prima o poi noi occidentali saremo chiamati a una scelta. Siamo già arrivati a 300 mila vittime. Non possiamo affrontare al buio il secondo anno di guerra. Come “i sonnambuli” di Herman Broch.

LA STAMPA

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