Perché l’Italia ha bisogno del Partito Democratico
Servirebbe quasi un appello “a tutti gli uomini liberi e forti” come quello che Don Sturzo rivolse agli italiani il 18 gennaio 1919, per convincere almeno un milione di cittadini coraggiosi ad accorrere questa mattina ai gazebo, per votare alle primarie del Pd. Servirebbe la consapevolezza di “questa ora grave”, per spingerli a versare 2 euro e depositare quella scheda nell’urna, sentendo “alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria” e propugnando “nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”. Ma sarebbe inutile. Non siamo nel ’19, anche se in giro tira un’arietta “diciannovista”. Stefano Bonaccini e Elly Schlein non sono Don Sturzo. E in quel partito pare ormai perduta ogni gravitas, ogni coscienza di sé e del suo posto nel mondo e nella Storia. È una sinistra sospesa tra Kafka e Sanremo. Da una parte si macera in un congresso lungo cinque mesi, tra regole esoteriche e astrusi commi 22. Dall’altro lato si crogiola con le canzoni di Ultimo dopo aver dimenticato gli ultimi e con i testi di Rosa Chemical dopo aver archiviato quelli di Rosa Luxemburg.
Eppure a questa Italia in amore con Giorgia Meloni, a tratti più per consunzione che per convinzione, un’alternativa politica credibile e spendibile servirebbe come l’aria. Non perché i patrioti non abbiano gambe per camminare fino al termine della legislatura. Le hanno, eccome se le hanno. Anche se non saprà mai capire né accettare la benedetta pedagogia costituzionale di Sergio Mattarella, questa destra durerà. Durerà nonostante i provvedimenti senza coperture finanziarie e i cedimenti senza vergogna alle lobby balneari, gli strappi di Berlusconi per l’amico Putin e gli spasmi di Salvini per le armi a Kiev, i pasticci sulle accise e i bisticci sul Superbonus, le bravate para-squadriste di Donzelli&Delmastro e le sparate cripto-fasciste di Fazzolari&Valditara.
Ma un’opposizione seria e solida è essenziale. Più Palazzo Chigi è contendibile e il ricambio è possibile, più la maggioranza dovrà almeno provare ad alzare gli standard di qualità del governo e abbassare il tasso di conflittualità interno. In caso contrario l’Italia rischia di scivolare verso un regime di democrazia bloccata. Per certi versi simile a quella della Prima Repubblica dominata dall’eterna Dc, ma stavolta senza più neanche il contrappeso di un altro partito popolare di massa, per quanto interdetto dal “Fattore K”, come il Pci. Al suo posto, avremo chissà ancora per quanto un’accozzaglia informe di capi e capetti in conflitto sistemico, una rissosa macchinetta da guerra comunque votata alla disfatta permanente.
Per questo, comunque la si pensi, converrebbe al Paese che alle primarie del Pd ci fosse più partecipazione possibile. Non sarà né potrà essere una “festa di popolo”, come successe nel 2005, quando vinse Prodi col 71% e andarono a votare in 4 milioni e 311 mila. Risultato impensabile, oggi. Vuoi per la diserzione generalizzata dalle urne che abbiamo già visto dilagare alle politiche del 25 settembre e poi alle regionali del 12 febbraio, dove al seggio sono andati 4 elettori su 10. Vuoi per la disaffezione specifica della gente di sinistra, già certificata dalle ultime primarie del 2019, quando vinse Zingaretti col 66% ma votarono solo in 1 milione e 582 mila. L’emorragia delle primarie è dolorosa: quasi 3 milioni di voti persi. Quella delle politiche è addirittura clamorosa: nel 2008 il neonato Pd attraversato dallo “spirito del Lingotto” veltroniano prese 12 milioni di voti, oggi è sceso a 5,3 milioni. I voti persi, in questo caso, sfiorano i 7 milioni. Un disastro. Anche se in Lazio e in Lombardia il partito-zombi che tutti davano per spacciato ha perso ma è sopravvissuto, dimostrando un’inaspettata resilienza.
Il partito-kebab, che a ogni tornata elettorale viene fatto a fette da un nemico finché resterà soltanto l’osso, ha ancora carne e sangue per resistere. E persino il leader-ombra Enrico Letta, che tutti davano alla macchia, ha lasciato tracce non trascurabili. In questi mesi ne abbiamo dette, scritte e sentite di tutti i colori “sull’apposito Pd”. Partito ipotetico, prima liquido e poi gassoso. Partito in gabbia, fatto e finito. Partito di baroni e di capibastone. Da ultimo, tra sacchi di petrodollari del Qatar e visite agli ergastolani di Sassari, anche partito corrotto e fiancheggiatore di mafiosi e terroristi. Persino il mite Gianni Cuperlo ha perso la pazienza: “Adesso basta, ci vuole rispetto per il Pd: non siamo né Sturzo né Gramsci, né Tina Anselmi né Nilde Jotti, ma non siamo nemmeno Brancaleone da Norcia”.
Purtroppo tra tante accuse esagerate c’è anche qualche amara verità. È vero che in questi anni, a forza di andare sempre un po’ più “oltre”, la sinistra si è smarrita. La malintesa “vocazione maggioritaria”, la pretesa del catch-all, la forza pigliatutto aperta inclusiva e contendibile, scevra da ideologismi e genericamente liberal, senza più ancoraggi a ceti e a classi, è finita in un “altrove” dove non si è più riconosciuta e non è stata più riconoscibile. La fusione a freddo tra le due anime, l’ex democristiana e l’ex comunista, ha prodotto “l’amalgama mal riuscito”. Lo scarso spirito di appartenenza è diventato il difetto di fabbrica della “Ditta”, generando scissioni “a schiovere” e leadership a perdere, sempre sacrificate nell’assurda cerimonia cannibale officiata sull’altare del risentimento, dove sono passati Prodi e D’Alema, Veltroni e Bersani, Renzi e Letta. Sempre più disancorato dai valori fondativi indicati da Bobbio, cioè libertà uguaglianza e solidarietà, il partito ha smesso di sognare e di pensare, ripiegandosi sulla gestione del potere e l’amministrazione di apparati e compiacendosi dei suoi stessi vizi: il “governismo” che l’ha sdraiato per 11 anni in un osceno kamasutra di larghe intese e unità nazionali senza un’elezione vinta, “l’elitismo” che ha coltivato nei salotti Ztl ricchi e riflessivi e sempre più lontani dalle periferie della marginalità e del disagio, il “correntismo” che l’ha immiserito nella cinica spartizione di tessere e prebende, candidature e poltrone.
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