I dannosi timori italiani sulla concorrenza

Una delle obiezioni più frequenti è la seguente: con tutti i problemi che abbiamo, il nostro destino europeo è legato indissolubilmente alle spiagge? Annotazione corretta. Un osservatore distratto potrebbe essere indotto a credere che un intero Paese sia frenato da due sole riottose corporazioni, i balneari e i tassisti. Non è così. Si difendono, com’è naturale. Ma la concorrenza piace poco anche ad altri. Più potenti. A parole più moderni e aperti. E nel vissuto quotidiano l’apertura dei mercati è spesso vista come un pericolo. Non come un’opportunità. Soprattutto per i più giovani. Se ne vanno già in tanti. E dove vanno? In Paesi nei quali vi sono maggiore concorrenza e riconoscimento del merito.

Nel decreto Milleproroghe, tanto per fare un altro piccolo e significativo esempio, è stato approvato un emendamento di Fratelli d’Italia che estende la possibilità di concorsi riservati per docenti di prima e seconda fascia fino a 14 anni dall’approvazione della legge 240 del 2010. In altri termini, gli atenei potranno fare concorsi dedicati solo ai propri ricercatori interni, senza la noia di allargarsi a tutti, difendendo così il loro arenile professionale.

Eppure, il Paese dimostra di stare in piedi grazie soprattutto alla dinamicità innovativa di chi esporta e affronta ogni giorno una concorrenza internazionale spietata. Nel 2022 le aziende italiane hanno esportato per oltre 600 miliardi di euro, quasi un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Se questi settori dell’economia avessero vissuto di concessioni benevole a lunga scadenza, nella certezza di non avere rivali, sicuri del loro spicchio di produzione e vendita, oggi probabilmente non esisterebbero più. Scomparsi. La lezione vale per tutte le attività economiche. Ognuno ha avuto o ha la propria spiaggia. Basta rileggere il saggio di Andrea Colli e Franco Amatori (Impresa e industria in Italia, dall’Unità a oggi, Marsilio) per comprendere quanto sia stata avversata la concorrenza. A partire dalla stessa Confindustria contraria ai primi accordi europei. Quale sarebbe stato il futuro dell’industria energetica italiana — e dello stesso nostro modello di sviluppo — se non avesse prevalso la lobby petrolifera su quella nucleare, nella quale avevamo primati di eccellenza? E quale sarebbe stato il destino dell’industria automobilistica se non ci fossimo protetti troppo dalla concorrenza giapponese, salvo poi subire, impreparati, quella tedesca? Gli esempi sono numerosi. La concorrenza in Italia, non è temuta solo sulle spiagge. Quello è solo un granello, in un rosario di paure ancestrali che i successi del made in Italy hanno dimostrato essere del tutto ingiustificate.

CORRIERE.IT

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