Il nostro altruismo perduto

Un’antipatia, un rifiuto infastidito, un volersi girare dall’altra parte, in cui, di nuovo, sembra di vedere qualcosa, che con la politica c’entra poco. E cioè, in sostanza, l’uscita della guerra dall’orizzonte di milioni di «nuovi» italiani. Ma non già nel senso di un’ovvia preferenza per la pace rispetto alla guerra che condividiamo tutti anche se non ne facciamo una bandiera nella quale avvolgerci. Bensì nel senso di una ormai compiuta estraneità nei confronti dei tratti del carattere e della personalità, anche del modello educativo, del mondo culturale e morale che la guerra mette in gioco: beninteso la guerra in difesa della patria, quella di cui qui si tratta e che gli ucraini stanno combattendo (e quale altra se no? visto che sul fatto che l’aggressione venga dalla Russia nessuno ha il coraggio di discutere) e che anche la nostra Costituzione definisce un dovere sacro di ogni cittadino.

Ma quanti sono, mi chiedo, gli italiani che oggi sentono un tale dovere? Quanti sono le donne e gli uomini disposti quindi a pensare che esistono cause per le quali è giusto mettere da parte la propria esistenza quotidiana con i suoi piccoli e meno piccoli piaceri, le sue comode abitudini, e accettare rinunce, disagi, pericoli, magari anche di rischiare la propria vita? Perché la guerra è questo. La guerra mette in gioco la tenacia, la forza di volontà, il coraggio, anche l’abnegazione di cui siamo capaci, e dunque i valori personali e collettivi a cui siamo stati educati e in cui siamo cresciuti. Evoca per sua natura l’idea che esista qualcosa di più importante e quindi di più grande della nostra vita. In questo senso essa è a suo modo una terribile prova di altruismo.

Che gli ucraini stanno affrontando nella maniera che si sa. E forse il pacifismo nostrano è solo il rimorso (forse anche un rimosso rimpianto?) per la consapevolezza di non essere più capaci di essere come loro.

CORRIERE.IT

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