La premier e quelle due strade inconciliabili
Montesquieu
Come la gazzella del famoso proverbio africano, ogni mattina in cui si sveglia Giorgia Meloni sa che dovrà fare un passettino, silenzioso e non troppo percettibile, verso una buona convivenza con i tradizionali partner europei, Paesi fondatori; un altro per il rafforzamento delle classiche alleanze del nostro Paese; un altro ancora nello spirito e nei principi della nostra Costituzione. Ma sa altresì che al contempo dovrà rassicurare ogni giorno la sua trincea di provenienza, che quei piccoli passi nulla cambiano della natura del partito, né dell’impianto elettorale che ha portato una destra radicale, estremista ed euroscettica al traguardo impossibile non solo del governo, ma della sua guida. E assicurare che quei piccoli passi non intaccano un armamentario ideologico e gestuale difficilmente compatibile con lo spirito della nostra Carta costituzionale. Tutto questo senza contare le divisioni che lacererebbero qualsiasi coalizione che non avesse il potere come unico obiettivo.
Una missione che definire impossibile è riduttivo, forse addirittura umoristico. Complicata ulteriormente dalla situazione confusa in cui versa l’elettorato, che la condizione precaria del nostro Paese spinge vorticosamente verso un’astensione indistinta e non facilmente interpretabile. Un’astensione che se non venisse prosciugata, condannerebbe qualsiasi governo a essere minoranza reale nel Paese, se non ancora giuridica. Una missione che fino ad ora la nostra presidente del Consiglio sta compiendo sul filo dell’equilibrio e con molta abilità, resistendo alle pulsioni che la vogliono buttare fuori strada, verso una rottura con il proprio elettorato tradizionale o con le alleanze che ci possono portare in salvo. Ad ogni passo deciso che fa seguendo pedissequamente i sassolini disseminati dal predecessore, e sempre dentro gli argini della carreggiata sogguardati con la consueta, magistrale, riservata terzietà dal capo dello Stato, ne segue per compensazione uno in direzione della conferma dei totem di una destra antistorica e anticostituzionale.
Una destra di cui Giorgia Meloni pensa, chissà se per il momento o per sempre, di non potere fare a meno. Con la differenza che, mentre gli ammiccamenti verso le derive della nostalgia sono appesantimenti del cammino virtuoso intrapreso, i passi di quest’ultimo sono assicurazioni sulla vita del governo e della stessa nostra collettività. Per capirsi: la difesa pubblica di svarioni istituzionali del tipo di quelli della coppia dei giovani e promettenti condomini Delmastro e Donzelli, contrasta gravemente l’imprescindibile processo di formazione di una dirigenza all’altezza del ruolo e del tempo. In questa direzione, sarebbe fondamentale, se accettato e proposto, il supporto della saggezza e lucidità di Gianfranco Fini, artefice dell’unico progetto concreto di una destra all’altezza del tempo e di una democrazia matura visto in questo Paese. Ancora: la decisione di portare al vertice del Senato una personalità eminente ma politicamente e provocatoriamente estrema dello schieramento vincente, rende impraticabile al capo dello Stato qualsiasi impegno che postuli la sua supplenza.
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