Inchiesta Covid a Bergamo: Conte, Speranza e Fontana indagati per la mancata «zona rossa»
di Maddalena Berbenni e Giuliana Ubbiali
Chiusa l’inchiesta sulla mancata zona rossa nel 2020: si potevano evitare oltre 4 mila morti. Una ventina sotto accusa
A Bergamo, i morti di Covid venivano portati verso i forni crematori di altre città con i mezzi militari, tanti erano. Quelli certificati, dopo un tampone positivo, furono 3.100, tra fine febbraio e la fine di aprile 2020, ma nello stesso periodo i decessi complessivi in tutta la provincia furono 6.200, di cui più di 5.100 a marzo, contro le precedenti medie mensili che solitamente si fermavano a 800 circa.
La foto dei camion è la più rappresentativa. La pandemia era così imprevista e imprevedibile, senza che si potessero risparmiare vite? Non secondo la Procura di Bergamo , che ha chiuso l’inchiesta per 17 indagati (ma ce ne sono altri, stralciati) con la principale ipotesi di epidemia colposa. Per l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza gli atti sono diretti a Brescia, al tribunale dei ministri. Per altri, qualcosa andrà a Roma. Ma il centro dell’inchiesta rimarrà a Bergamo.
Tra gli indagati ci sono il presidente della Regione Lombardia appena confermato Attilio Fontana e l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera. Lo sono anche il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli, l’allora coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, l’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli e l’allora direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito. Anche l’ex capo della Prevenzione del ministero della Salute Claudio D’Amario, l’ex segretario generale Giuseppe Ruocco, il responsabile delle Malattie infettive Francesco Maraglino. Si è perso tempo e si è sottovalutato il rischio, sono convinti i pm.
Secondo il loro consulente, Andrea Crisanti (oggi senatore del Pd), si sarebbero risparmiati 4.148 morti con una chiusura della Val Seriana dal 27 febbraio, 2.659 dal 3 marzo. Il punto è chi avesse a disposizione i dati. Governo, Regione e tecnici dell’emergenza, ritiene la Procura. Con le proiezioni, Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento tracciò gli scenari: il peggiore ipotizzava mille casi dopo 38 giorni dal primo positivo ufficiale, ma quel livello di contagio venne superato già il 29 febbraio.
Il 25 febbraio Merler invia a Brusaferro una nota: il tempo di raddoppio dell’epidemia è stimato tra i 3,5 e i 6,1 giorni. Nella riunione del 26 febbraio del Cts, però, non si ritiene di estendere le restrizioni del Lodigiano a nuove zone. In quella del 28, vengono proposte misure secondo un principio di proporzionalità ed adeguatezza. Merler scrive anche alla Regione, una mail «confidenziale» il 28 febbraio. Indica l’R0, l’indice di trasmissione del virus: a Bergamo è 1.80, a Codogno 1.84, in Lombardia 2.1. Solo sotto l’1 era gestibile. Quello stesso giorno, due ore prima, Fontana scrive una mail con cui chiede al ministero e alla Protezione civile «il sostanziale mantenimento» delle misure in corso per la settimana dal 2 all’8 marzo. Eppure, negli allegati, la stessa nota riporta l’R0 di 2. Ogni paziente infetto trasmetteva il virus ad altre due persone. Di chiudere la Val Seriana o un’area più estesa si parlò il 3 marzo in un verbale del Cts, secondo gli appunti di Miozzo già il giorno prima. Brusaferro riferì di numeri «preoccupanti» e suggerì che erano necessarie misure di limitazione in ingresso e in uscita.
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