Lo sfogo di Spielberg: “L’antisemitismo è qui non se n’è mai andato”

Simona Siri

NEW YORK. «L’antisemitismo c’è sempre stato, che fosse dietro l’angolo o leggermente nascosto, è sempre stato in agguato. Nella Germania degli anni ’30 è stato palese. Oggi, l’antisemitismo non è più in agguato, ma è in piedi, orgoglioso con le mani sui fianchi come Hitler e Mussolini, che ci sfida a guardarlo in faccia». Sono le parole pronunciate dal regista Steven Spielberg a Stephen Colbert durante un’intervista registrata andata in onda giovedì sera durante il Late Night Show. L’occasione è l’avvicinarsi della notte degli Oscar, prevista per domenica 12 marzo: il nuovo film di Spielberg, The Fabelmans, è candidato a sette statuette tra cui quelle più importanti per miglior regista e miglior film. Considerato il suo lavoro più personale e autobiografico, il film racconta la vita della famiglia Fabelman/Spielberg, della separazione dei genitori dopo che viene alla luce la storia della madre con il miglior amico e socio del padre. Racconta anche la nascita della passione del giovane Steven (nel film Sammy) per il cinema e di come, arrivato in California negli anni ’60, sia stato vittima di bullismo, deriso e picchiato per il suo essere ebreo.

«The Fabelmans non è un film sull’essere ebrei tanto quanto è soffuso di ebraicità», ha scritto sul New York Times Jason Zinoman. «È una cosa che in questi termini non avevo mai sperimentato, soprattutto in America», ha continuato Spielberg da Colbert. «L’emarginazione di persone che non fanno parte di una sorta di razza maggioritaria è qualcosa che si è insinuato in noi per anni e anni. Di recente l’odio è diventato una sorta di appartenenza a un club che ha raccolto più membri di quanto avessi mai pensato fosse possibile in questo Paese. E odio e antisemitismo vanno di pari passo, non si può separare l’uno dall’altro». Nato in Ohio nel 1946, Spielberg ha vissuto con la sua famiglia in Arizona prima di arrivare in California. «Spesso eravamo l’unica famiglia ebrea del quartiere. Ero imbarazzato, impacciato. Sono sempre stato consapevole di distinguermi per la mia ebraicità. Al liceo, sono stato preso a schiaffi e a calci. Due nasi sanguinanti. È stato orribile», ha detto in passato. Un rapporto, quello con le sue origini, non sempre facile. Pur avendo membri della famiglia morti nell’Olocausto, Spielberg da giovane non è mai stato troppo interessato all’argomento. Decide di girare Schindler’s List solo nel ’93, a 46 anni, dopo aver rifiutato il film 10 anni prima, nel momento in cui decide di riavvicinarsi alla sua identità ebraica. «Quando sono nati i miei figli, ho fatto la scelta che volevo che crescessero come ebrei e che ricevessero un’istruzione ebraica», scrive nella sua biografia dove racconta anche il modo particolare in cui ha imparato i numeri: «Da un sopravvissuto di Auschwitz che usava il tatuaggio sul braccio per insegnarmeli. Si rimboccava le maniche e diceva: “Questo è un quattro, questo è un sette, questo è un due”. È stato il mio primo concetto di numeri. In modo strano, la mia vita è sempre tornata alle immagini che circondano l’Olocausto. Faceva parte della mia vita, era ciò che i miei genitori mi raccontavano a tavola. Abbiamo perso cugini, zie, zii».

Le sue parole oggi rispecchiano la preoccupazione di molti ebrei americani: i dati della Anti-Defamation League – l’organizzazione che dal ’79 monitora gli incidenti antisemiti – parlano di un aumento del 167% rispetto all’anno precedente per quanto riguarda molestie, atti vandalici e violenze dirette contro gli ebrei. Tra queste l’episodio più grave rimane l’attacco del 2018 alla sinagoga Tree of Life di Pittsburgh, dove un uomo armato uccise 11 fedeli ebrei, così come il famoso raduno «Unite the Right» a Charlottesville, in Virginia, due anni prima, dove i manifestanti estremisti cantavano «gli ebrei non ci sostituiranno». Altre opere recenti stanno provando a raccontare questo nuovo antisemitismo.

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