Globalizzazione e concorrenza: in Italia i salari giù del 2,9% in 30 anni

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina

Ora vacilla anche il totem della libera concorrenza. Dagli Stati Uniti all’Europa il principio base dell’economia di mercato è rimesso pesantemente in discussione: le imprese, compresi i grandi gruppi industriali, non sono in grado di affrontare da sole la sfida epocale della transizione ecologica. Il presidente americano Joe Biden, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, i leader di diversi governi hanno già adottato o stanno studiando sovvenzioni, aiuti di Stato, agevolazioni fiscali. Tutte misure guardate con sospetto fino a poco tempo fa, specie nell’Unione europea. I Trattati che regolano la vita economica della Ue danno grande rilievo al principio della «libera concorrenza». Come si legge sul sito del Parlamento europeo, «le imprese devono essere in grado di competere alla pari tra di loro per offrire ai consumatori i migliori prodotti al miglior prezzo possibile», con benefici anche per l’innovazione e la crescita dell’economia nel suo complesso.

La concorrenza globalizzata

Questa dottrina economica e giuridica non sembra più in grado di mantenere le promesse diffuse da una drastica accelerazione negli anni Ottanta, prima negli Usa e in Gran Bretagna (Reagan e Thatcher) e poi nel resto d’Europa. Questi ultimi 40 anni sono stati segnati, in grande sintesi, da tre passaggi fondamentali che riguardano diversi Paesi, Italia compresa.
Primo: la vendita di aziende pubbliche (dalle autostrade alle telecomunicazioni) ai privati.
Secondo: il varo di nuove norme per liberalizzare il mercato del lavoro, ovvero l’introduzione di innumerevoli tipologie di contratto che ha dato vita ad una larga fascia di lavori precari od occasionali con poche garanzie contrattuali.
Terzo: l’apertura delle frontiere per facilitare gli scambi commerciali. Da questo punto di vista la data simbolo è l’11 dicembre 2001, con l’ingresso della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Di fatto l’inizio della «globalizzazione». Si pensava fosse questa la via migliore per alimentare lo sviluppo economico, benessere diffuso, dinamismo imprenditoriale, opportunità per i giovani più meritevoli. Ma non è andata esattamente così. Vediamo perché.

Il calo dei salari

I dati mostrano come il trionfo della concorrenza su scala planetaria abbia penalizzato i lavoratori, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini. Che cosa è successo realmente? Da una parte le retribuzioni sono effettivamente aumentate, sospinte dagli adeguamenti contrattuali per recuperare l’inflazione, oppure perché i governi hanno alleggerito le imposte a carico dei lavoratori. Le cifre dell’Ocse, rielaborate da Stefano Bernabei per Openpolis, segnalano che dal 1990 a oggi, il valore medio lordo delle retribuzioni sia aumentato in 37 Paesi sui 38 che aderiscono all’organizzazione (del 33,7% in Germania, del 31,1% in Francia). L’unico Stato in cui sono calate è proprio l’Italia: -2,9% rispetto agli importi del 1990.

Ma attenzione, nonostante questi incrementi, in generale i salari non sono cresciuti in modo proporzionale rispetto all’aumento del prodotto interno lordo. La torta della ricchezza si è allargata, però la fetta destinata ai lavoratori non è aumentata abbastanza per mantenere le stesse proporzioni che c’erano negli anni Ottanta, prima della globalizzazione. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che dal 1980 al 2017 la quota del prodotto interno lordo (la fetta di torta) destinata ai salari e stipendi è diminuita in 26 Paesi industrializzati, passando dal 66,1% al 61,7%. Le medie però nascondo differenze importanti fra singoli Paesi, come mostra lo studio pubblicato il 22 settembre 2022 dall’istituto Bruegel di Bruxelles in collaborazione con il German Marshall Fund, la quota destinata ai salari in Germania nel 1980 era pari al 71%, oggi è al 63%. I dipendenti francesi partivano dal 75% e si ritrovano al 66%, mentre l’Italia è passata dal 68% al 59%.

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