Globalizzazione e concorrenza: in Italia i salari giù del 2,9% in 30 anni

Meno risorse per il welfare

Ma per quale motivo la quota del reddito riservata a salari e stipendi non è aumentata in modo proporzionale alla crescita dell’intera torta? In pratica negli ultimi trenta-quaranta anni le spinte che fanno aumentare le retribuzioni, come il rinnovo dei contratti, le misure di alleggerimento fiscale sono state frenate da un vento contrario, quello della concorrenza, della globalizzazione e del progresso tecnologico che, invece, esercitano una pressione al ribasso su stipendi e salari. Prendiamo per esempio i metalmeccanici tedeschi, una delle categorie simbolo dell’industria europea: l’automobile e il suo indotto. Si calcola che il salario dei quattro milioni di addetti iscritti al sindacato Ig Metall abbia perso il 25% del suo valore dal 2018 a oggi. Nel novembre 2022 l’Ig Metall ha ottenuto il rinnovo del contratto, con aumenti dell’8%, da qui al 2024, ma la retribuzione non crescerà abbastanza per recuperare le perdite subite a causa della delocalizzazione di impianti in Paesi dove il costo del lavoro è inferiore a quello della Germania.

In tutti questi anni per le case automobilistiche (ma non solo) è stato facile mettere i lavoratori con le spalle al muro: o accettate una crescita modesta dei salari, oppure trasferiamo altre fabbriche nei Paesi dove le paghe sono molto più basse La modesta crescita dei salari e i contratti a tempo determinato hanno avuto un effetto anche sul sistema di welfare in Europa. Se il reddito dei lavoratori ristagna, anche il gettito fiscale non cresce abbastanza per coprire le spese sociali, a cominciare dalle pensioni che richiedono sempre più risorse finanziarie a causa dell’invecchiamento della popolazione.

L’avanzata cinese

Sappiamo che la globalizzazione e, in particolare l’ingresso a pieno titolo della Cina nell’area del commercio planetario hanno indotto le aziende a delocalizzare in Paesi con un basso costo della manodopera. Solo in Italia, stando ai dati Istat, tra il 2001 e il 2006 il 13,4% delle nostre imprese ha trasferito almeno una parte della produzione all’estero. Il fenomeno si è attenuato solo negli anni recenti, pur rimanendo rilevante. Tra il 2015 e il 2017 si sono spostate circa 700 aziende industriali e dei servizi, medie e grandi: il 3,3% del totale, il 4,2% se si considera solo il settore manifatturiero.

Le multinazionali Usa ed europee, invece, hanno fatto rotta direttamente sulla Cina. Ma, com’è noto, Pechino ha accolto le imprese straniere a condizione che condividessero il patrimonio di conoscenze tecnologiche con partner cinesi. E ora gli occidentali si trovano a inseguire i concorrenti cinesi in alcune dei comparti chiave dell’innovazione. Un solo esempio: la Cina detiene una quota del mercato mondiale delle auto elettriche pari al 30%; l’Unione europea è al 20%; gli Stati Uniti sono fermi al 7%. Per almeno un paio di decenni le diverse Amministrazioni di Washington e i governi europei hanno assistito alla tumultuosa avanzata cinese nei settori delle energie rinnovabili, delle terre rare, delle componenti tecnologiche. Senza fare nulla, in ossequio al dogma della libera concorrenza.

L’eclissi dello Stato

Anche in Italia ogni ragionamento di «politica industriale» veniva rapidamente liquidato come obsoleto, non in linea con l’interesse generale. Negli anni ultimi vent’anni, la «Direzione 7» del Ministero del Tesoro, che, si legge nel sito ufficiale, si occupa della «valorizzazione del patrimonio pubblico», si è limitata «all’esercizio dei diritti del socio nelle società partecipate dello Stato». In sostanza i funzionari dello Stato partecipano alle assemblee societarie, siedono nei consigli di amministrazione o incassano i dividendi, quando ci sono, di un lungo elenco di imprese: dall’Anas alle Poste, dalle Ferrovie all’Enel all’Eni a Leonardo. E la politica industriale? Completamente sparita. Facciamo un solo caso tra le possibili decine. Il 2 maggio 2019 la Fca (Fiat Chrysler Automobiles) ha venduto la Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kansei per circa 5,8 miliardi di euro. A Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte, a capo del governo con Lega e Movimento 5 Stelle. Nessuno fece obiezioni, eppure oggi le competenze della Magneti Marelli farebbero comodo ai progetti di conversione elettrica dell’industria automobilistica italiana, o di quel che rimane. Tirando le somme: globalizzazione e concorrenza hanno reso disponibili i beni a prezzi più bassi, che ognuno di noi rincorre, senza rendersi conto che le aziende recuperano i margini per reggere l’offerta dei concorrenti comprimendo il costo della manodopera, cioè dello stipendio che noi stessi riceveremo come lavoratori. E per almeno vent’anni i governi hanno abdicato a qualsiasi funzione di intervento, lasciando campo libero alla concorrenza senza freni che ha prodotto i risultati che abbiamo appena visto. Ed ora è proprio la transizione ecologica ad affidare agli Stati il compito di trasformare l’economia.

La mossa degli Usa

Biden ha imposto la svolta, mettendo in campo risorse pubbliche per 369 miliardi di dollari con l’Inflation reduction act, varato il 16 agosto 2022, per finanziare la «transizione ecologica» nei prossimi dieci anni. Il pacchetto contiene tante misure a vantaggio dei consumatori, come gli sconti fiscali per chi acquista un’auto elettrica, purché prodotta negli Stati Uniti. Ma il cuore della manovra è costituito dai 69 miliardi di dollari da destinare alle imprese che producono pannelli solari, turbine eoliche, batterie e altre componenti per i veicoli elettrici. Per lo più non sono sussidi diretti, ma crediti di imposta. In sostanza l’Amministrazione Biden dice alle aziende: lavorate per la transizione ecologica e, di fatto, non pagherete tasse sugli utili. Bruxelles, in realtà, si era già mossa prima con il «Next Generation Eu», il piano di investimenti, adottato il 14 dicembre 2020 per rilanciare l’economia europea travolta dalla pandemia. Un capitolo, con circa 750 miliardi di euro prevede, tra l’altro, sovvenzioni a fondo perduto e prestiti alle aziende attive nel settore delle energie rinnovabili. Ma ora la questione si complica: occorre consentire alle aziende europee di reggere la competizione con quelle americane, e di resistere alla tentazione di delocalizzare impianti negli Usa, attirati dagli incentivi di Biden. Alcuni grandi gruppi europei, come la svedese Northvolt, la spagnola Iberdrola e l’italiana Enel, che stanno già investendo in America, sembrano guardare con interesse alle nuove opportunità aperte dal piano Biden.

Ue in ordine sparso

Per rispondere all’intervento pubblico degli Stati Uniti, Ursula von der Leyen ha lanciato il «Green Industrial Plan», un impianto basato su due pilastri: allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato previsti dal Trattato europeo, e l’ istituzione di un fondo comune cui i singoli Paesi possono attingere per aiutare le imprese nazionali. Paesi come Germania e Francia, che hanno ampi margini di bilancio per poter recuperare miliardi di euro da girare alle imprese, spingono sull’allentamento dei vincoli; altri, come l’Italia, che hanno un debito pubblico troppo alto per poter aumentare ancora le uscite pubbliche, chiedono invece di costituire al più presto un fondo comune. Ma il cancelliere Olaf Scholz non ne vuole sapere di ulteriori condivisioni di spese comuni. Il Consiglio europeo del 9 febbraio ha recepito le richieste tedesche e concesso maggiore flessibilità per l’Italia nell’utilizzo di risorse europee per sostenere la transizione delle industrie italiane.

Del fondo comune forse se ne riparlerà più avanti. La conclusione è chiara: il nuovo corso a Washington, come a Bruxelles, affida allo Stato, e non più alla libera concorrenza, il compito di trasformare l’economia, creare occupazione, senza penalizzare le busta paga dei lavoratori. Almeno, questa è la sfida. dataroom@corriere.it

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