Le profezie sbagliate sulla crisi e l’apocalisse mai avvenuta

Un altro allarme da ridimensionare riguarda il costo dei nostri aiuti all’Ucraina. Un’illusione ottica li ingigantisce, e non solo in Italia. Come ha osservato lo storico inglese dell’economia Adam Tooze, chi sta facendo di più in assoluto per sostenere l’Ucraina, cioè gli Stati Uniti, ha speso finora lo 0,2% del suo Pil per fornire assistenza economica, umanitaria e militare a Kiev. Tutti gli altri hanno fatto molto meno. È sempre Tooze a ricordarci un confronto: la Germania spese il triplo nel 1991 per contribuire alla coalizione che cacciò l’esercito iracheno di Saddam Hussein dopo l’invasione del Kuwait.

Il grosso di quanto abbiamo speso «per l’Ucraina», in realtà lo abbiamo dato a noi stessi: aiuti pubblici per attutire l’impatto del caro-energia sulle nostre famiglie e imprese. All’Ucraina sono andate le briciole, in confronto. E non parliamo di armi, dove la spesa aggiuntiva è inesistente: abbiamo attinto ai nostri arsenali, peraltro molto sottili. Le promesse di adeguare al 2% del Pil i nostri investimenti per la difesa — che erano state prese solennemente molti anni fa, prima dell’invasione dell’Ucraina — continuano ad essere rinviate, a Roma e a Berlino.

Dopo aver constatato che anche questa Apocalisse era un’allucinazione, dovremmo concederci un riconoscimento. Se i danni paventati non si sono verificati, lo dobbiamo ai due ingredienti del modello occidentale: l’economia di mercato e la democrazia. Il sistema capitalistico è fatto per reagire con flessibilità agli shock esterni, per esempio con i risparmi energetici e le innovazioni sostenibili nel mondo delle imprese. La liberaldemocrazia è per sua natura reattiva di fronte ai disagi dei cittadini, lo si è visto nella prontezza con cui le risorse pubbliche sono state mobilitate per attenuare il caro-bollette. Imprese e governi hanno lavorato insieme anche per accelerare la diversificazione delle nostre fonti di approvvigionamento. Un anno fa nessuno immaginava che ci saremmo emancipati così velocemente dal gas russo. Un po’ più di autostima verso il «nostro sistema» non guasterebbe.

Ma per la stessa ragione per cui ce la siamo cavata così bene negli ultimi dodici mesi, sarebbe ingenuo sottovalutare i segnali che vengono dalle nostre opinioni pubbliche. A torto o a ragione, i sondaggi indicano un calo nel sostegno all’Ucraina, in America come in Italia. Questo sostegno rimane maggioritario, la condanna di Putin resta dominante, però i segnali di stanchezza ci sono. Nelle democrazie i politici sono reattivi a questi segnali. Vedi la risalita nei sondaggi di Donald Trump che si presenta come «l’unico capace di evitare la terza guerra mondiale». È per questo che negli Stati Uniti si discute di uno scenario coreano, evocando la guerra che fu congelata sul 38esimo parallelo nel 1953, dopo tre anni di combattimenti. Quella guerra non fu mai conclusa da un vero trattato di pace, anzi il confine tra le due Coree resta pericolosissimo, però la soluzione all’insegna del «meno peggio» ha consentito alla Corea del Sud di stravincere la lunga «tregua» degli ultimi 70 anni, diventando una prospera, civile, avanzatissima democrazia. La Russia non è la Corea del Nord, per congelare il conflitto attuale bisogna che l’Ucraina riceva delle garanzie molto solide sulla sua sicurezza presente e futura. La strada è ancora lunga. Di sicuro a Washington la ricerca di una via d’uscita verrà accelerata dall’avvicinarsi dell’elezione presidenziale nel 2024.

CORRIERE.IT

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