La premier, Schlein e le leader che nessuno “ha visto arrivare”
Flavia Perina
Una Giorgia Meloni sorridente davanti a una grande bandiera europea: la svolta che non ti aspetti è tutta nell’immagine collocata ieri, con grande solennità, nella Sala delle Donne di Montecitorio, il luogo che ospita i ritratti delle prime signore entrate a far parte delle istituzioni della Repubblica. Alla vigilia dell’8 marzo la premier ha scelto di entrare nella galleria delle madri costituenti, delle prime sindache, delle prime presidenti della Camera, del Senato, del Csm, archiviando in modo definitivo il vecchio messaggio sovranista ed euroscettico per consegnarsi alla storia e al ricordo dei posteri non solo come prima donna premier, ma anche come prima amica dell’Europa e possibile protagonista delle sue future evoluzioni.
Per capire la qualità dello strappo basterà ricordare che, solo cinque anni fa, l’intero gruppo di Fratelli d’Italia sottoscriveva una proposta di legge per cancellare dalla nostra Costituzione i paragrafi che vincolano l’Italia al rispetto delle normative e dei trattati europei. In pratica, un’Italexit. Meloni ne fu la principale firmataria, e il testo cominciò pure il suo iter in Commissione Affari Costituzionali dove fu difeso con energia in nome “della nostra dignità nazionale e libertà”. Altri tempi. Altre necessità, altre vicende, ma fa comunque sensazione la velocità con cui la premier sta conducendo il suo mondo verso nuove sponde. Sì, perché vincolando alla Giornata delle donne quello scatto e quella bandiera, si archivia non solo il vecchio euroscetticismo delle destre ma anche l’irrisione e la sufficienza riservate in passato alle grandi dame dell’Unione, gli insulti al fisico di Angela Merkel, le accuse di bullismo a Ursula von der Leyen, lo scherno verso le giovani “leader ballerine” del Nord.
Giorgia Meloni vuole stare nella storia e nella scia di quelle donne di potere, non altrove (di sicuro non con chi le ha maltrattate) e questo è solo il primo degli strappi della cerimonia. Perché subito dopo arriva il sincero ringraziamento a Laura Boldrini, che della Sala delle donne è stata l’artefice nel 2016, forse la più bersagliata dagli insulti maschilisti del sovranismo pre-meloniano: l’arcinemica che la Lega portò su un palco comiziale in forma di bambola gonfiabile, con grande ilarità di Matteo Salvini e un vergognoso hashtag lanciato subito dopo (#sgonfiaboldrini). Adesso, l’ex-presidente della Camera, presente al discorso di Meloni, è l’unica citata per nome e cognome dalla premier. L’altro riferimento – ed è il terzo strappo – è dedicato alla sua nuova avversaria, Elly Schlein. Meloni prende in prestito la frase-simbolo del successo alle primarie Pd adattandola alla sua storia, alla sua biografia, e più in generale al destino che tocca alle donne: gli uomini ci sottovalutano sempre, spiega, ma alla fine questo può risultare un vantaggio anziché un handicap, perché “spesso non ci sentono arrivare”. Un atto di riconoscimento non scontato per l’avversaria che un’ora dopo sarà in aula con un durissimo attacco al governo.
Il discorso della premier alla Sala delle Donne, insomma, esce da ogni canone prevedibile in materia di Otto Marzo e in qualche modo riconcilia la destra con una data che non ha mai sentito pienamente sua. La conversione si compie in nome di qualcosa che somiglia alla solidarietà di genere, non solo con le donne che guidano l’Europa ma anche con le competitrici politiche di ieri e di oggi. E chissà cosa ne pensano i partner di Meloni: Matteo Salvini, che usò la data per invitare le signore a ribellarsi al rito di “quelli che si fermano al semaforo per comprare la MIMOSA dagli ABUSIVI” (maiuscole sue), oppure Silvio Berlusconi che in questa fatidica giornata fu bersaglio di ripetute e talvolta enormi mobilitazioni femministe.
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