Le nostre città ferite a morte

La pandemia ci ha cambiato molto più profondamente di quanto si potesse pensare. Ha introdotto un senso di ansia, un bisogno costante di verifica della propria autostima, una fragilità e una violenza nelle relazioni di cui le cronache sono piene ogni giorno.

Senza ricorrere a facili sociologismi o a determinismi incongrui è difficile non mettere in relazione il passaggio d’epoca che la pandemia ha segnato con l’emergere dei 53.000 ragazzi italiani che, da allora, hanno deciso di non uscire più di casa o l’esplodere del fenomeno delle bande giovanili che usano la violenza come linguaggio e istinto di autoaffermazione.

Si aggiunga che in questo Paese, attraversato dai profeti dell’egoismo sociale e capace di chiudere agli immigrati dei quali ha ovunque bisogno, le scuole si svuotano e le Rsa si riempiono. Così si delinea un quadro del futuro che, senza una visione, rischia di assicurare all’Italia una prospettiva di declino.

Non si può chiedere solo ai sindaci di affrontare queste sfide. Le città sono il nostro habitat naturale, il luogo della nostra esperienza vitale. A cavallo del secolo hanno conosciuto un periodo di crescita eccezionale e costituito modelli di governo ispirati all’obiettivo del miglioramento della vita dei cittadini. Ora gli amministratori non possono essere lasciati soli a fronteggiare questo mutamento veloce e radicale.

Se chiudono scuole, cinema, teatri, librerie, edicole, negozi di giocattoli o di artigianato cosa resterà della possibilità di incontrarsi e vivere insieme in quartieri desertificati o fatti solo di ristoranti e farmacie? Il vivere sociale è il vivere stesso. Le città rischiano l’invivibilità e l’aggravarsi del divario, lacerato dalla crisi sociale, tra centri storici e periferie.

Forse è il tempo che tutti, maggioranza e opposizione, parti sociali e enti locali, comincino a discuterne. Che si decidano politiche degli affitti dei locali per servizi considerati essenziali, che si aprano le scuole al pomeriggio per la formazione permanente, che si sperimentino forme innovative di circolarità e di scambio praticate in altri Paesi.

Che si guardino le città non solo come nastri di asfalto, ma come luogo della vita. Dal loro stato di salute dipende, per intero, quello, sociale ed emotivo, della nostra comunità.

CORRIERE.IT

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