Di cosa parla Everything Everywhere All at Once, il film che ha sbancato gli Oscar
Mentre i comprimari dell’Alphaverso tornano ogni tanto a far capolino nelle dimensioni alternative in cui si muove Evelyn, naturalmente assumendo diverse e più aggressive identità così da costringere la nostra eroina non più giovanissima a sfoderare le sue ancora notevoli qualità di campionessa di kung-fu, il summenzionato spettatore pseudo-cartesiano si aspetterebbe che il «caos» creato da Tupaki (anche lui con una identità proveniente dall’Alphaverso) venisse pian piano diradato. Così almeno succedeva nei film a cui eravamo stati abituati. E invece qui i due registi-sceneggiatori Daniel Kwan e Daniel Scheinert, soprannominati «the Daniels», sembrano divertirsi a rendere tutto ancora più intricato, più confuso, più multiversico.
Uscito nel marzo scorso un po’ alla chetichella negli Stati Uniti ed esploso a sorpresa al botteghino superando i 100 milioni di incasso (nonostante la pandemia), il film ha affascinato il pubblico più giovane, abituato a ragionare con la logica non certo cartesiana dei videogiochi e desideroso, come ha scritto un utente, di provare quello che sembra «un viaggio sotto acido». Adesso, forte delle sue 11 candidature, ritorna sugli schermi italiani (era uscito inosservato a ottobre) alla ricerca di un pubblico che forse non riconoscerà tutte le strizzatine d’occhio (ne fa le spese anche «2001 Odissea nello spazio»), ma è disposto a farsi stordire da un cinema ultra-cinetico. A patto — va ricordato — di non avere le sinapsi un po’ intorpidite dall’età.
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