L’attacco a sorpresa di Schlein contro i «capibastone» del Pd. E sui volti dei vecchi ras cala uno sguardo di cera
di Fabrizio Roncone
Schlein attacca i «capicorrente» del Pd durante il suo discorso. E per i nuovi aspiranti al potere adesso la parola magica è «Elly»
Cacicchi, capibastone, capicorrente, detti anche boss, baroni, padrini, ras.
«Non vogliamo più vederli!» — la giugulare di Elly sotto la camicia bianca e dietro al microfono, un attacco feroce e inatteso ai vertici del partito sferrato dopo nemmeno venti minuti di discorso:
con la platea che ondeggia prima incredula e poi di botto eccitata, i
delegati che balzano in piedi, le grida di evviva che quasi coprono gli
applausi liberatori, sfrenati, donne e uomini che mandano baci alla
nuova segretaria del Pd, adesso con un sorriso più che compiaciuto, di
sfida (quindi, un mezzo ghigno).
Bolgia.
Prendere appunti.
Osservare bene.
Ne provocano uno (ma con un filo di voce, vigliacchi).
«Ehi, Andrea: Elly stava parlando anche di te».
Andrea Orlando non si volta,
finge di non sentire o proprio non sente, lo sguardo fisso sul palco,
sulla candidata che lui, dopo un’iniziale incertezza, alle primarie ha
pure sponsorizzato con forza.
Orlando, poco fa, è entrato nel
gigantesco androne metafisico del centro congressi «La Nuvola», qui
all’Eur, come uno dei più potenti sultani del Nazareno: spinto dai
fotografi dentro un groviglio di cavi e telecamere e omaggiato dai
cronisti, uno camminando all’indietro quasi inciampa, un’altra —
sfoderando un sorriso assassino — implora almeno mezza dichiarazione.
Per Elly Schlein, arrivata cinque minuti dopo, addirittura meno pathos,
meno riverenze: il riflesso condizionato di chi è ormai abituato alle
solite gattopardesche dinamiche di un partito che ha già cambiato undici
segretari in 15 anni, quasi sempre sperando che poi tutto restasse —
appunto — perfettamente uguale.
E invece: ecco l’improvvisa randellata politica di Elly sulla testa
dei capi storici. Compresi quelli che si sono schierati al suo fianco.
Le agenzie telefonano a Goffredo Bettini. Nicola Zingaretti è
seduto in alto, sulla sinistra, vicino alle scalette: una sfinge (e
però c’era cascato nel trappolone retorico, quando lei, con preamboli
dolciastri, lo aveva persino ringraziato del lavoro svolto da segretario
— sì, certo, figurati — e lui l’aveva salutata da lontano). Di pietra, Dario Franceschini; le sue truppe osservano sentendosi ancora forti: capo, quali sono gli ordini? Giuseppe Provenzano, nell’incertezza di essere considerato a sua volta qualcosa di simile a un boss, applaude con entusiasmo.
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