Assaf Gavron: “La vera Israele è quella in piazza, possiamo ribaltare Netanyahu”

Assaf Gavron

Il risultato elettorale dello scorso novembre è stato demoralizzante per gli israeliani liberali, ma non inatteso. Conosciamo la maggioranza con la quale viviamo. Da decenni abbiamo governi di Netanyahu e di altri esponenti di destra. Anche quando Netanhayau nominò alcuni estremisti razzisti a capo di importanti ministeri, noi scettici di sinistra scrollammo apatici le spalle. Pensavamo: hanno vinto, sono al potere, lo eserciteranno, noi grideremo nelle piazze, non cambierà niente. Non ho preso parte alle prime due proteste del sabato sera a gennaio. Sono andato per una ventina di minuti alla terza, quella del 21 gennaio, ho fatto due chiacchiere con un vecchio amico di quando ero sotto le armi e sono tornato a casa poco ispirato. Sempre la solita vecchia storia.

Solo che non è così. Quando il governo si è rifiutato di rallentare la sua frenetica corsa volta ad approvare leggi che, teoricamente, gli concederebbero un potere illimitato, nel giro di poche settimane noi scettici ci siamo interrogati e arrovellati increduli perché le proteste non si sono affievolite, ma hanno acquistato slancio. Le proteste sono ovunque, e sempre più gruppi di persone si sono uniti al coro, il settore hi-tech opera e fa fortuna all’estero; economisti di spicco, che mettono in guardia dicendo che una democrazia debole danneggerà l’economia (lo shekel e il mercato azionario in calo lo stanno già facendo); ex giudici e giudici in carica che esprimono il loro orrore per l’abrogazione della separazione dei poteri; le scuole, che insegnano la democrazia e lasciano che i loro studenti manifestino; e gli ultimi arrivati, le riserve dell’esercito e i piloti dei caccia, che dichiarano che si rifiuteranno di prestare servizio se saranno approvate le leggi antidemocratiche. In tutto il Paese, sempre più persone prendono parte alle proteste del sabato sera, e mandano così un messaggio inequivocabile: noi cittadini abbiamo sempre rispettato la legge e ci siamo attenuti a quello che ci si aspettava da noi, il rispetto delle decisioni del governo, a patto che il governo rispetti i nostri diritti di base. Se invece questo patto sarà violato e si strapperà il contratto che tiene unita la nostra società, non saremo obbligati a rispettarlo.

Stranamente, nella sua frenetica corsa per far approvare queste leggi con arrogante euforia, senza tener conto nemmeno della richiesta avanzata dal presidente di una soluzione, il governo sta facendo una cosa che i liberali non sono riusciti a fare per decenni: unirsi orgogliosamente dietro un’ideologia, la democrazia.

Naturalmente, lo scontro adesso è andato ben oltre la riforma della giustizia. Siamo a un bivio che potrebbe definire la natura stessa di Israele per i prossimi decenni. Una strada conduce a una desolante autocrazia o teocrazia, l’altra mantiene il fragile status di società democratica e liberale del Paese. Entrambe le parti in causa ricorrono a metodi mai usati prima: i primi approvano leggi pericolose, i secondi ricorrono per la prima volta ai loro asset finanziari e alle loro risorse umane.  Il 18 febbraio, quando ho partecipato al settimo sabato sera di protesta, ho avvertito un cambiamento. I partecipanti erano molti (la settimana scorsa hanno raggiunto i 140mila) ma, aspetto assai più importante, è cambiato il clima. Ho percepito fiducia e orgoglio. Ho visto persone determinate a non rinunciare al loro Paese senza combattere. La bandiera bianco-celeste sventolava ovunque. Non sono stati i simboli patriottici a commuovermi, ma il fatto di reclamare la bandiera e il patriottismo, dopo anni in cui sono rimasti di proprietà della destra, è stato un colpo di genio.

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