Il nuovo Pd, tra consenso e mandato
di Ezio Mauro
È una strana creatura, finalmente uscita dal Novecento e liberata dalle ruggini ideologiche sopravvissute alla lezione del secolo, questo Pd che ieri si è affacciato alla post-modernità nello scenario della ‘Nuvola’, col disegno del tempo sospeso. Presentato come agonizzante dopo la vittoria elettorale della destra estrema guidata da Giorgia Meloni, accompagnato da preci che chiedevano il suo scioglimento per adempiere alla falsa profezia secondo cui l’antitesi destra-sinistra non riusciva più a interpretare le contraddizioni del nuovo mondo, di colpo con la vittoria di Elly Schlein il Pd ha risolto il problema capitale del ‘primum vivere’. Adesso bisogna inventare una filosofia del nostro tempo, in grado di risolvere l’incertezza del Paese e persino di governarla recuperando un rapporto di fiducia nella società, partendo da quel deposito di energia democratica che non si vedeva a occhio nudo e che le primarie hanno svelato.
Come in tutte le fasi di crisi, che radicalizzano i problemi rendendo evidenti le vie di fuga, quanto è accaduto ha una lettura semplice: il sistema politico è talmente stremato che l’ultima speranza viene riposta soltanto nel cambiamento. Persino Giorgia Meloni, ministro di Berlusconi già nel 2008 — quindici anni fa — è stata scambiata per una novità, privilegiando la sua provenienza dall’altromondo piuttosto che il suo curriculum castale di lungo corso. Questo sentimento generale da tempo si è incanalato per gran parte nella palude civica dell’astensione, arrivata ormai a una quota del 40 per cento che contrasta col principio costituzionale del voto come dovere civico verso il Paese: nella convinzione per cui la posta in gioco è così bassa, e le differenze sono così irrilevanti, che non vale la pena alzarsi dal divano per esprimere una preferenza. Ma c’è evidentemente una riserva d’impegno civile, convinta al contrario che il diritto di cittadinanza si esprime proprio nella capacità di distinguere comunque e nel dovere di scegliere in ogni caso, prendendo parte. A sinistra, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate, questa disponibilità democratica ha continuato a covare sotto la cenere governista, nell’illusione ministeriale che intanto viveva artificialmente e contronatura, separando il voto dall’esercizio del potere. Radicali e spettacolari, concentrate sui leader trasformati in personaggi piuttosto che sulle idee tradotte in programmi, le primarie sono diventate insieme la valvola di sfogo e il mezzo d’espressione di questa energia repubblicana compressa, arrabbiata, delusa ma comunque viva, addirittura irriducibile. Perforando gli incomprensibili rituali di partito e il viluppo di regole trasformate in ossessione procedurale, hanno aperto uno spiraglio di democrazia diretta, senza la ritualità maestosa di un congresso ma con l’irruzione della sovranità di base, quando il potere di scelta si sposta dalla nomenklatura agli elettori. Per un giorno il partito — unico in Italia — si apre, si espone al giudizio, e diventa contendibile. Anzi di più: scalabile. Questa è la vera chiave di interpretazione dell’uso politico delle primarie, perché unisce il testardo senso di appartenenza con il decisivo istinto di sopravvivenza, testimoniando l’urgenza vitale del cambiamento come ultima spiaggia. E dunque premia chi dà l’assalto al quartier generale rispetto a chi amministra lo status quo, con un pregiudizio di massa a favore della scalata, versione riformista, si potrebbe dire, della spallata d’altri tempi.
Pages: 1 2