La falla nei controlli delle banche Usa: ma non c’è il panico della Lehman Brothers
di Federico Fubini
Il fuoco è circoscritto, non sedato. E le fonti sotterranee che lo alimentano sono individuate, ma non sono state né raggiunte né tantomeno rimosse. Questa crisi bancaria emersa negli Stati Uniti con il fallimento di Silicon Valley Bank (Svb) non ha il carattere sistemico del disastro partito nel 2007 dai mutui subprime ed estesosi l’anno dopo ai grandi nomi di Wall Street. Non ci sono terribili perdite sul credito come a quei tempi, almeno non ora. Che questa almeno sia l’impressione prevalente lo dimostra il fatto che ieri i principali listini di New York, S&P500 e Nasdaq, si sono mossi in terreno lievemente positivo: non c’è il panico da collasso sistemico e l’America non rivive il crash di Lehman, sicuramente non adesso. Le grandi banche oligopoliste non sono più circondate dal sospetto, da Jp Morgan, a Bank of America, a Citigroup, a Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley. Questo non sembra un remake del 2008. Eppure il fuoco cova. E né la Federal Reserve né il Tesoro Usa sono ancora riusciti a estirparlo.
Del resto non è difficile capire perché. Soprattutto negli anni di Donald Trump alla Casa Bianca, dal 2017 al 2019, molti vincoli sulle banche regionali americane sono saltati. Non hanno i requisiti sulla liquidità da tenere a disposizione che le banche europee osservano e spesso superano nettamente (per esempio, Monte dei Paschi viaggia al doppio di quanto richiesto, Intesa Sanpaolo a una volta e mezza e anche Unicredit è molto sopra le soglie). Né le banche americane minori hanno una revisione di vigilanza periodica, come in Europa: basta che si auto-valutino e poi scrivano alle autorità. Con questo retroterra e anni di tassi zero che hanno spinto tutti a prendere sempre più rischi, ora che è arrivata la stretta monetaria della Federal Reserve era solo questione di tempo. Le incoerenze sono emerse: Svb aveva bloccato anni fa i depositi dei clienti in titoli pubblici su cui era in perdita; al primo vento di sfiducia, non ha avuto la liquidità per evitare di fallire. Il punto ora è che probabilmente il suo non è un caso isolato, né è sufficiente ciò che hanno fatto domenica sera la Fed e il Tesoro per renderlo tale. l’intervista
Il mercato ieri lo ha detto chiaramente, devastando fino a meno 84% i titoli di First Republic Bank e Western Alliance, fino a meno 80% quello di PacWest Bancorp e trattando in modo appena meno brutale Zions Bancorp, Regions Financial and Charles Schwab. Tutti cercano di annusare dove si trova il prossimo cadavere che cammina. È logico, data l’insufficienza della risposta istituzionale finora. Il Tesoro ha fatto sapere che coprirà tutti i depositi — anche oltre la soglia massima di assicurazione da 250 mila dollari, anche quelli dei miliardari incauti e immeritevoli di un salvataggio — ma solo delle due banche già saltate: Svb e Signature. E la Fed ha aperto uno sportello di prestiti dove finanzia le banche a valore pieno anche contro titoli di Stato il cui prezzo è caduto, così avranno sempre liquidità per i loro clienti. Ma non è una gran prospettiva, se un depositante sa che avrà diritto a tutti i suoi soldi solo dopo che la sua banca è fallita: continuerà a correre a ritirarli prima. E non è una gran prospettiva per una banca rivolgersi allo sportello d’emergenza della Fed («bank term funding program») se sa che sul mercato ciò l’avvolgerà di un alone di sospetto.
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