Concita De Gregorio: la malattia solo un pezzo di me

ANNALISA CUZZOCREA

Dovete immaginare un giardino d’estate, una telefonata e un’amica – la più brava, l’infallibile, l’inarrestabile – che ti chiede: «Mi controlli tu il pezzo, lo guardi bene?». E poi ti dice: «L’ho scritto da sdraiata».

Concita De Gregorio ha avuto un cancro, lo ha detto parlando con Francesca Fagnani, a Belve, su Raidue. Non sapeva se lo avrebbe detto lì, ma poi è arrivata quella domanda: «Cos’ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di Giorgia Meloni?». E la risposta: «Stavo per chiamare il direttore perché io preferirei avere i miei capelli. Questa è una parrucca».

La telefonata nel giardino d’estate è arrivata ad agosto perché è ad agosto che Concita si è operata. Lo sapevano le persone più vicine, non ha voluto dirlo agli altri. Ma «Bisogna sempre pensare che la persona con cui parli o di cui parli, da qualche parte, può avere un danno», dice ora. Vale per tutti, vale un po’ di più per chi di mestiere racconta il mondo. E invece, ci si pensa sempre troppo poco.

Non sapeva se l’avrebbe detto lì, Concita, ma sapeva che a un certo punto del viaggio lo avrebbe fatto. E non per sé. «Mi sono curata per un anno in una struttura pubblica, al Policlinico Gemelli a Roma. Il percorso in day hospital, la chemioterapia in day hospital: uno stanzone in cui non sei mai solo. Poi il reparto Terapie integrate che è un posto meraviglioso dove si prendono cura di te con il supporto psicologico, la fisioterapia, l’agopuntura, il nutrizionista. Anche questo è servizio pubblico. Vorrei dirlo perché abbiamo un grande problema con la sanità italiana, ma ci sono luoghi di eccellenza dove la persona viene prima del malato».

L’ha operata Riccardo Masetti, l’ideatore di Race for the cure. «Ho conosciuto solo persone che hanno avuto una cura straordinaria, ma non per me. Io ero in fila con il mio numero. L’hanno avuta nello stesso identico modo per chi era in fila prima di me e per chi stava dopo. Ho capito, ho saputo, che le donne che patiscono questo tipo di cancro sono una su quattro. E quindi, facendo i conti con la mia vita, ho pensato che moltissime persone che conosco o che noi conosciamo attraversano questo percorso in silenzio e in solitudine, senza dirlo. Magari perché in quel momento si vergognano di essere più deboli, meno attraenti, più fragili, meno competitive: lo stigma della malattia».

Così, «Fin dal primo momento ho pensato che questa cosa dovevo dirla in qualche modo anche per dare un posto a tutti quelli che fanno fatica. Stare in mezzo a queste persone, moltissime donne straniere, che non parlano bene l’italiano, mi ha fatto subito pensare che sarebbe stato giusto, a un certo punto, dire: guardate, sta capitando anche a me, si può fare senza che questo debba diventare tutta la tua vita. Senza trasformarti nella tua malattia. Sei una persona che ha una malattia, che cura quella malattia».

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