Crolli bancari: le colpe sono note
Dobbiamo iniziare ad aver paura davvero? La settimana scorsa la crisi in California di una banca legata alla Silicon Valley, simbolo della tecnologia motore della crescita. Un istituto tanto interconnesso da aver nel suo nome, Silicon Valley Bank (SVB), la ragion d’essere. Ieri in Svizzera, la caduta di un altro istituto, il Credit Suisse, anch’esso con nel nome la presunta quanto iconica solidità elvetica. Due inneschi per un incendio che ha coinvolto i mercati mondiali crollati in Europa come in America.
La risposta alla domanda iniziale dovrebbe essere «no». Ma solo in teoria. E non dovremmo aver paura per almeno un paio di motivi. Il primo è che paradossalmente le crisi finanziarie che abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni avrebbero dovuto insegnare molto a chi queste situazioni doveva controllare. Ed evitarle. Il secondo è che, in entrambi i casi, la caduta delle due banche è legato non tanto a sofisticati investimenti in esotici derivati o a chissà quale truffa. Ma a ragioni chiare ed evidenti.
In California è stata l’incapacità di comprendere che se i tassi di interesse erano aumentati del 4% nel giro di poco tempo qualcosa doveva cambiare nella strategia della banca. (E analoga riflessione dovranno fare anche gli istituti europei).
In Svizzera era chiaro che
inanellare nel giro di un paio d’anni investimenti sbagliati, perdite,
fuga dai depositi e dalle gestioni, bilanci da chiarire, e infine
l’ingresso di azionisti mediorientali ricchi quanto poco accorti, poteva
avere conseguenze.
Ma conoscere le ragioni della caduta delle due banche non spinge certo a essere tranquilli. I
crolli sui mercati di ieri fanno capire quanto il nervosismo pervada il
mondo dell’economia. In fondo SVB investiva in «noiosi» quanto sicuri
titoli di Stato americani. Il Credit Suisse aveva varato un aumento di
capitale miliardario. Ma abbiamo capito purtroppo a nostre spese
quanto possano essere fatali in questa situazione imperizie nella
gestione delle banche e una vigilanza non all’altezza per dire
chiaramente carente.
Il crollo delle Borse di questi giorni (e ieri è toccato anche a Wall Street che sembrava avesse digerito la crisi della SVB), dimostra che la mancanza di fiducia in un uno o due istituti fa presto a trasformarsi in panico generale. Ogni crisi bancaria inizia dal fatto che investitori, imprese e cittadini tolgono la fiducia al proprio istituto ritirando depositi e investimenti. Ma se il panico si diffonde, il tutto si trasforma in perdurante crisi. Ed è questo che va evitato.
Almeno la lezione del 2008 dovrebbe essere stata imparata. Iniziò a cadere la Bear Sterns, oggi dimenticata. Ma anche 15 anni fa quel segnale fu sottovalutato. E quando, sempre nel settembre 2008 fallì Lehman che diventò l’emblema della crisi, la bufera fu tale che solo parecchi anni dopo il mondo intero riuscì a uscirne. E qual era la lezione? Che la stabilità finanziaria va preservata o sarà l’intera attività economica a soffrirne.
Avere strade in disordine o senza manutenzione non permette ad automobili e camion di poter viaggiare. Alla stessa maniera, un sistema finanziario traballante frena o addirittura blocca l’economia. E le banche sono l’architrave di quel sistema. «Attaccate» a un istituto ci sono milioni di persone, migliaia di imprese. Ma questo non deve significare conferire a banche e banchieri una sorta di salvacondotto.
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