Le duellanti. Botta e risposta tra Elly Schlein e Giorgia Meloni

Ma la segretaria pd non ha alcuna intenzione di raccogliere. È stata tutto il tempo ad ascoltare, seria, scorrendo continuamente gli appunti che tiene nascosti sotto il banco. Non fa sorrisini sostenuti, non cerca l’approvazione di chi le è accanto come fa l’avversaria con i vicepremier Salvini e Tajani, entrambi al suo fianco. Quando tocca di nuovo a lei e attacca con la formula di rito, «Le sue risposte non ci soddisfano», dai banchi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia cominciano a rumoreggiare, addirittura a ridacchiare per un problema col microfono. Una deputata urla: «Si è già scritta tutto!». Meloni li ferma, fa segno di stare calmi, ascolta. Ed è nella replica – ma è sempre così – che Schlein tira fuori quel che voleva. «Non può nascondersi dietro a un dito, presidente. Lei ora è al governo. Ci sono io all’opposizione». Non dice noi, la leader dem. Dimentica per un attimo la retorica delle compagne e i compagni, della comunità, delle opposizioni che devono marciare unite. Dice «io», e la voce un po’ trema nel salire. Rimette dritto il tavolo che Meloni ha cercato per tutto il tempo del question time di ribaltare, attaccando sulle regole europee, come se non fosse un suo problema doverle ricontrattare con Bruxelles. Rinfacciando il Superbonus ai 5 stelle, che le avevano chiesto tutt’altro. Replicando qualcosa come «parlateci degli scafisti», alle puntuali domande di Riccardo Magi – di + Europa – sui naufragi nel Mediterraneo di cui il governo vorrebbe solo smettere di parlare.

«Non è più tempo di dare responsabilità agli altri. Lavoro e povero non devono più stare nella stessa frase. Fratelli d’Italia in Ue ha detto sì all’introduzione del salario minimo, adesso ve lo state rimangiando». Meloni non si tiene, allarga le braccia come a dire «E vabbè». L’altra va giù dura con i numeri, come lo studente che sa la lezione a memoria e non vede l’ora di dirla d’un fiato. Dai banchi di destra sale il frastuono, ma non copre l’affondo: «Questa destra è ossessionata dall’immigrazione, ma non vede l’emigrazione di tanti giovani costretti ad andarsi a costruire un futuro altrove. Voi pensate ai rave, ai condoni, a togliere diritti alle figlie e ai figli delle famiglie omogenitoriali. Sul piano sociale questa destra è racchiusa in tre parole: incapacità, approssimazione, insensibilità».

È guerra di applausi dem contro i buu della destra. E qui sta il limite dell’intera operazione. Necessario, forse, perché chi sta ricostruendo un’identità non può pensare a non pestare i piedi agli altri. Ma ieri due cose sono apparse nitide: Schlein è il capo del Pd. Fa il capo con una postura che altri prima di lei non avevano usato. Si muove come tale in aula, alla buvette, in Transatlantico (con buona pace dei cronisti – maschi – che osservano infastiditi il codazzo che le si fa intorno). Le opposizioni però restano divise e questo, alla lunga, è un problema. Neanche su un tema come il salario minimo, che i 5 stelle si sono sentiti scippare Schlein è riuscita a strappare un applauso dai banchi che non è lei a guidare. Il Movimento è rimasto spiazzato, Conte ha twittato di aver depositato lui la prima proposta di legge sul salario minimo poco prima che la seduta cominciasse, e serve a poco che la segretaria abbia ricordato come su questo ci siano proposte di tutte le opposizioni, da cui bisognerà partire. Così come serve a poco che lei abbia applaudito l’intervento accorato del M5S Silvestri dopo l’attacco di Meloni, arrivata – senza ragione – a mimare il «gratuitamente» di Giuseppe Conte, in un intervento che più che una risposta era uno sfottò. Il Movimento guarda Schlein da fuori come una concorrente. L’ex premier sembra quasi considerarla un’usurpatrice. Marattin, di Italia Viva, a chi gli fa ironicamente notare di aver fatto un intervento quasi da opposizione, risponde: «Tra Schlein e Meloni, vado a sciare». E quindi c’era più di un capo, in aula, ieri. Ma non ancora un’opposizione capace di lasciare il segno. 

LA STAMPA

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