Ora il vero rischio è la crisi di fiducia
Stefano Lepri
Quando sono addirittura le banche a dubitare l’una dell’altra, viene subito di pensare che là dentro si sa qualcosa che ancora noi non sappiamo. Stando alle cifre che si conoscono, non ci sarebbero i presupposti per difficoltà diffuse come quelle di cui i mercati finanziari in questi giorni stanno mostrando di temere. Ma di certezze solide non ce ne sono, quando tutto dipende dalla fiducia.
Una crisi di fiducia può abbattere anche una banca sana, come sapevano benissimo gli sceneggiatori hollywoodiani del film «Mary Poppins» nel 1964 e come dimostrarono con rigore scientifico nel 1983 i due vincitori del Nobel 2022 per l’Economia, Douglas Diamond e Philip Dybvig. Non è necessario dunque che ci siano magagne nascoste. Può bastare il contagio della paura.
Da queste cognizioni ormai condivise, dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008, ci si era illusi di aver tratto tutte le conseguenze necessarie. Non è così. Negli Stati Uniti, una legge giusta è stata rivista a causa di pressioni lobbistiche. In tutti i Paesi, i banchieri tentano di eludere i controlli delle autorità di regolazione pubbliche incaricate di verificare i loro conti.
Inoltre, quando una banca va a rotoli può far danni molto più gravi di quanto la sua dimensione potrebbe far pensare. In Italia lo abbiamo visto alla metà dello scorso decennio, quando le malefatte clientelari di Vicenza o di Arezzo hanno scosso l’economia nazionale, spingendo a interventi di Stato e anche collettivi del sistema bancario (a Washington avrebbero fatto bene a studiarlo).
Facile ironizzare sui banchieri che fino a ieri inneggiavano a una assoluta libertà di mercato e oggi implorano soccorso dai governi. In realtà la ricetta giusta non era facile stabilirla in anticipo. I due casi della Silicon Valley Bank e del Crédit Suisse non potrebbero essere più diversi, eppure cooperano a suscitare uno stesso panico.
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