Il Leviatano della finanza e le colpe della politica

MASSIMO GIANNINI

Saltano le banche. Un’altra volta, come nel 1929, come nel 2008, come nel 2015. E allora? Che sarà mai? Di che ci meravigliamo? Mi torna in mente il magnifico “Qualcosa sui Lehman” di Stefano Massini, quando il cinico Philip rimbrotta suo cugino Herbert, graffiato per un attimo dalla lama arrugginita del rimorso: «Cos’è il mondo, se non mercato? Gli esseri umani non possono vivere senza denaro… Non esiste un solo aspetto dove non regni il vendere-comprare. Dunque non capisco: cos’è che non ti piace?». E infatti. Cos’è che non ci piace nel gioioso crac della Silicon Valley Bank, tempio votivo della modernità e propaggine finanziaria del meraviglioso mondo delle start up californiane, così meta-versiche, iper-tecnologiche, super-dinamiche?

Cos’è che non ci piace nel gaudioso dissesto del Credit Suisse, carro allegorico del “capitalismo reale” e simbolo schumpeteriano della distruzione creatrice permanente e ricostituente? Una ha polverizzato 42 miliardi di dollari di depositi in un solo giorno, l’altra ha perso il 25% del suo valore in pochi minuti. In due sedute, a distanza di tre giorni tra il primo e il secondo default, le Borse europee hanno visto svanire più di 600 miliardi di capitalizzazione. E allora? Che problema c’è? Nessuno. Così assicurano gli economisti e gli statisti, i padrimaristi e i palastilisti. Non si vedono all’orizzonte né minacce alla stabilità del circuito internazionale né effetti domino da una parte all’altra dell’Atlantico (dati i coefficienti patrimoniali più severi del pianeta imposti alle banche europee). Svb crolla per un deficit di liquidità: cattivo rapporto tra attivi e passivi della banca innescato dall’aumento dei tassi di interessi.  

Eccesso di investimenti pregressi in titoli di lunga durata a rendimenti bassi e fissi, deprezzati in tempi di stretta monetaria, conseguente fuga della clientela verso impieghi più remunerativi, improvviso e irrimediabile svuotamento delle casse. Credit Suisse collassa per un deficit di affidabilità: squassata dal Big Crash del 2007-2008, zavorrata da scandali e conti in rosso, multata per corruzione e tangenti, condannata per riciclaggio, infine mollata dal primo azionista Saudi National Bank che si rifiuta di aumentare la sua partecipazione, accendendo la miccia sui mercati. La vulgata dice che non si tratta di “cigni neri” sistemici ma di “bachi” singoli e scollegati, e che le soluzioni sono già pronte. In America paga lo Stato: come annuncia lo Zio Jo e, nessun risparmiatore subirà perdite e le autorità monetarie interverranno whatever it needs (variante bideniana del whaterver it takes draghiano). In Svizzera paga la Banca centrale, con un prestito emergenziale di 50 miliardi di franchi, con la speranza che basti e con l’auspicio che ora, all’inevitabile spezzatino del gigante malato zurighese, partecipino “gnomi” più seri e più solidi.

Sarebbe magnifico poter credere a questa storiella, assolutoria e rassicurante. Magari il cordone sanitario, stavolta, funzionerà davvero ed eviterà il contagio. Ma la diffidenza psicologica dei cittadini è comprensibile e l’acribia dogmatica dei decisori è discutibile. Troppe incognite, in un mercato globale già terremotato dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dalla spirale inflazione-recessione. Il nuovo virus bancario incuba durante ma in parte anche a causa della stretta monetaria decisa un anno fa da Fed e Bce. Fronte Federal Reserve: tra martedì e mercoledì capiremo se il governatore Powell rivedrà la strategia del rigore, visto l’impatto negativo del rialzo dei tassi sui bilanci delle banche e il calo dell’indice dei prezzi a febbraio. Nel frattempo, come scrive Adam Tooze, proprio Svb ha perso un miliardo di dollari ogni volta che i tassi sono aumentati dello 0,25% (e negli ultimi dodici mesi la Banca centrale Usa li ha portati da 0 al 4,5%). Fronte Banca centrale europea: giovedì scorso la presidente Lagarde ha riconfermato la Linea Maginot, si va avanti con i rialzi previsti, per non far perdere credibilità all’istituzione e non allarmare la business community su possibili fallimenti creditizi nascosti nell’Eurosistema. Ma intanto, come sostengono il governatore di Bankitalia Visco e il presidente dell’Abi Patuelli, il caro-tassi indebolisce la tenuta patrimoniale delle banche perché ne fa lievitare le minusvalenze in portafoglio, e per questo serve “una riflessione ulteriore” prima di stringere ancora i bulloni del credito (visto che in parallelo sono crollati i prezzi del gas e in dodici mesi la Bce ha comunque innalzato il suo tasso di riferimento al 3,5%).

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