Pnrr, governo all’esame Ue per la terza rata: la melina sui balneari complica i piani
ALESSANDRO BARBERA
ROMA. Sulla linea del telefono Roma-Bruxelles, più che delle modifiche al Piano nazionale delle riforme e di quel che l’Italia vuol fare coi fondi generosamente offerti dai Ventisette (siamo di gran lunga il primo beneficiario), si discute spesso di quel che l’Italia non ha fatto. Quanto si è effettivamente speso fin qui? Quindici miliardi? Venti? Sui siti ufficiali non vi è traccia di un cronoprogramma, né il governo ha ancora fornito alla Commissione dati chiari. I continui richiami di Paolo Gentiloni sono direttamente proporzionali al terrore per un epic fail all’italiana. L’ultimo rapporto presentato da Raffaele Fitto a Natale sull’uso dei fondi ordinari di coesione sta lì a dimostrare che non c’è nessun pregiudizio: siamo cronicamente incapaci di spendere presto e bene. Il ministro degli Affari comunitari – sulle cui spalle pesa il successo o l’insuccesso dell’enorme operazione – non si occupa d’altro, evitando il più possibile di esporsi con interviste e uscite pubbliche.
Il primo problema – e grosso – riguarda la seconda rata del 2022 chiesta a dicembre. Invece dei canonici due mesi, per giudicare il rispetto degli impegni sulle riforma gli uffici della Commissione si sono dati come scadenza il 30 marzo. Fin qui era accaduto solo due volte, con Romania e Bulgaria. Ai tecnici non è ad esempio chiara la riorganizzazione dei poteri a Palazzo Chigi. Chi si occuperà di monitorare il rispetto delle procedure e la destinazione dei fondi? Quali responsabilità resteranno in capo al Tesoro, la struttura che fin qui ha fatto quel lavoro? E ancora: quanto precisa è stata l’implementazione della riforma sulla concorrenza? Se – come molti sono convinti accadrà – Roma passerà indenne la scadenza di fine marzo, il governo avrà un altro mese a disposizione per chiedere le modifiche ai progetti del Piano.
Il pretesto trovato con una certa abilità diplomatica da Fitto è la redistribuzione di alcuni fondi minori rimasti inutilizzati, chiamati «Repower Eu». Per dirla in estrema sintesi: con la scusa di ridestinare poco meno di sei miliardi, il ministro sta cercando di cancellare le opere programmate sgradite al governo (o che non hanno alcuna speranza di essere realizzate entro il 2026) con altre comprese negli obiettivi del “Repower” dedicate allo sviluppo delle energie rinnovabili. L’obiettivo è di farlo nel modo più esteso possibile e per una ragione prosaica: quei progetti passano anzitutto attraverso gli investimenti delle grandi partecipate (su tutte Eni ed Enel) e dunque hanno molte più chance di essere realizzati entro la scadenza del 2026 di quante non ne abbiano molte proposte in mano a Comuni e Regioni. Chi ha visto le carte riservate parla di un rimescolamento che varrà ben oltre i dieci miliardi.
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