Vogliono fare crescere questi bambini dentro un carcere

Annalisa Cuzzocrea

Guardatela questa bambina, con i capelli neri lunghi e i piedi che non toccano terra. Si chiama Zinetta, quando è entrata in carcere aveva tre anni, adesso ne ha sette e quel cortile e quella panchina sono il suo posto del cuore nel carcere di Lauro, in provincia di Avellino. Guardate le foto di Anna Catalano, a Napoli, ascoltatela mentre racconta dei bambini che le chiedevano: «Portami via», e poi ditemi se questa è giustizia.

Forse il problema è che quei deputati di Fratelli d’Italia, quei sottosegretari, quei leader politici a vederli da vicino – i bambini in carcere – non ci sono mai stati. Non hanno attraversato il portone dalla vernice scrostata della casa circondariale di Rebibbia, a Roma. Consegnato la borsa con il telefonino, percorso i viali spogli, osservato il mare di cemento in mezzo al quale si trova la sezione nido.

Non hanno visto i più piccoli affollarsi intorno alle assistenti per giocare con le chiavi delle porte di ferro che ogni notte li rinchiudono. Non li hanno visti piangere perché vorrebbero andare fuori, e loro fuori non possono andare. Non li hanno sentiti urlare per la paura di un lavoro di ristrutturazione, «umore, umore», gridava un bambino che non aveva due anni e quel suono lì non lo aveva mai sentito. Non faceva parte del repertorio della sua clausura. E non era l’ora di uscire in giardino quindi no, da quel brutto rumore nessuno lo poteva allontanare.

Non hanno parlato con i medici che visitano i bambini in carcere e raccontano del loro rapporto malato con lo spazio, ristretto da quando hanno memoria. Dei loro problemi di vista perché quasi sempre l’unica luce – bassa – è quella dei neon. Perché la luce del giorno la vedono troppo poco e quando la tua percezione del mondo è in costruzione, questo conta, incide, limita, ammala.

Non hanno visto madri disperarsi quando in un Icam un bambino che da scuola deve tornare dentro, e dentro non può invitare nessuno, comincia a detestare la prigionia associandola alle colpe di chi gli ha dato la vita. Molti di questi rapporti – che in carcere sono simbiotici – si spezzano quando il bambino diventa ragazzo e prende coscienza. Tutte le persone che si occupano di carcere, anche chi lavora con l’infanzia nelle prigioni italiane e fa di tutto per rendere la permanenza dei bambini meno terribile, dice chiaramente: «La condizione detentiva non è compatibile con la salute dei minori». E allora cosa si aspetta?

C’è una legge del 2011 che prevede per le detenute madri che hanno con sé bambini fino a tre anni (nelle sezioni nido) o fino a 10 anni (negli Icam, istituti a custodia attenuata, comunque chiusi e spesso inseriti all’interno delle carceri) la pena possa essere scontata in case famiglia protette. Luoghi inseriti in un tessuto cittadino, ma comunque controllate. Dove si possano fare percorsi di rieducazione per le madri, ci sono anche in carcere, ma da dove i bambini possano uscire e entrare con più libertà. Ce ne sono già due, una a Milano e una a Roma, “La casa di Leda”, dal nome di Leda Colombini, partigiana che ai bambini in prigione aveva dedicato la vita. Da lì in venti anni c’è stata una sola evasione.

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