Quelle paghe da fame e l’assurda ostilità per il salario minimo
Marco Revelli
Il caso dei lavoratori e delle lavoratrici delle RSA piemontesi pagati 5 euro lordi all’ora è uno scandalo sociale d’indubbia gravità, per numerose ragioni. Intanto perché umilia le persone che prestano il proprio lavoro “di cura”, e quindi particolarmente impegnativo, carico di responsabilità e di rischi (lo si è visto durante il Covid), misurando la loro fatica sui gradi più bassi del riconoscimento sociale. In secondo luogo perché offende gli stessi assistiti in quelle strutture, come ha scritto giustamente Elsa Fornero su questo giornale: quegli anziani, molti dei quali non autosufficienti, che avrebbero tutti i diritti a essere curati da un personale ben retribuito e, per questo, consapevole del proprio valore e della propria responsabilità, e che invece vengono considerati oggetti di scarto da affidare a manovalanza considerata a sua volta (ingiustamente) di scarto. Infine perché una simile pratica, in genere permessa dall’esistenza di “sindacati pirata” poco rappresentativi ma molto disponibili, introduce una grave distorsione nel mercato del lavoro favorendo quelle imprese che praticano una simile forma di dumping salariale realizzando sproporzionati utili a danno di quelle che operano con correttezza e subiscono per questo una vera e propria concorrenza sleale.
Uno scandalo, si è detto. Ma non un caso-limite, come ha dimostrato il Dossier pubblicato da “La Stampa”. Dire che in Italia 6 milioni di lavoratori dipendenti, il 30% dell’intera forza-lavoro nazionale, non arriva a guadagnare 12.000 euro lordi al mese, poco più di 600 netti, significa affermare che una parte assai grande del “mondo del lavoro” sta, con dolore, a cavallo di quella soglia di povertà assoluta che segna il confine tra l’essere e il non essere: lo si è detto ma è utile ricordarlo che, come certificato dall’Istat, quella soglia è fissata in una forbice tra gli 852 euro per un singolo che viva in un’area metropolitana del nord e 576 dei piccoli comuni del sud. In entrambi i casi ognuno di quei sei milioni di lavoratori avrebbe grande difficoltà a nutrirsi adeguatamente, vestirsi, curarsi, vivere insomma una vita “dignitosa”, a meno che non abbia in famiglia almeno un paio di altri membri in condizione di lavoro; ma se avesse per sciagura un’altra persona a carico, un figlio, un disabile, un coniuge disoccupato, finirebbe in un abisso. Sono i working poor, quelli cioè che pur avendo un posto di lavoro, restano tuttavia in condizione di povertà assoluta. E che in molti casi hanno dovuto ricorrere per sopravvivere a quel Reddito di cittadinanza tanto vituperato da chi questi problemi non li vive, ma che da quando è in vigore ha comunque salvato dalla miseria oltre un milione di persone all’anno, funzionando in molti casi come strumento di supplenza rispetto a una dinamica salariale asfittica in modo anomalo, con una curva trentennale appiattita sul basso o addirittura negativa mentre in tutti gli altri paesi Ocse cresceva.
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