Le crisi bancarie e la teoria dello scarafaggio: quanti ne sono nascosti?



Intanto le scosse di assestamento non sono finite neanche negli Stati Uniti. Tra le banche di medie dimensioni che sono oggetto di timori se n’è aggiunta un’altra, PacWest. Un dato spicca fra tutti. Da quando il 12 marzo la Federal Reserve ha attivato due nuovi sportelli speciali per prestare soldi alle banche, le aziende di credito hanno attinto a questi prestiti ad un ritmo di 117 miliardi ogni notte. In tempi tranquilli questo genere di prestiti non raggiungevano i 10 miliardi. Sempre in America, non si placano le polemiche sulla decisione della segretaria al Tesoro Janet Yellen di salvare tutti i clienti delle banche fallite, andando ben oltre la garanzia assicurativa che copre i depositi fino a 250.000 dollari. Il salvataggio degli straricchi – secondo la Yellen – era necessario per arrestare il contagio del panico, evitare che le fughe di depositanti si diffondessero verso altri… scarafaggi. Però il salvataggio degli straricchi, oltre ai dubbi etici e politici che solleva, impedisce all’economia di mercato di fare pulizia penalizzando chi ha fatto scelte sbagliate e inefficienti. Non tutte le banche sono scarafaggi, e la clientela molto ricca dovrebbe avere la capacità di esercitare discernimento, spostando i propri soldi verso gli istituti meglio gestiti, quindi premiando l’efficienza.

Non si sfugge all’impressione che i primi salvataggi operati dal Tesoro Usa e dalla Fed siano la prova che «la coperta è troppo corta». Abbiamo vissuto a lungo in un mondo inondato di credito a buon mercato, con tassi a zero. Troppi si sono indebitati facilmente, perché i creditori e gli investitori non esercitavano una selezione adeguata. Il rialzo dei tassi provoca sconquassi da molte parti. Quello che stiamo vedendo all’opera nel sistema bancario è un meccanismo semplice, banale, meccanico. Perfino senza avere fatto investimenti speculativi e azzardati, quelle banche che negli anni d’oro si sono riempite la pancia di titoli del Tesoro a reddito fisso che rendevano pochissimo, e non hanno acquistato strumenti di copertura dal rischio di un rialzo dei tassi, oggi hanno perdite virtuali che sono gigantesche (dai 620 miliardi di dollari fino al triplo, sono le valutazioni che circolano per il solo sistema bancario americano). Se una fuga di depositanti costringe queste banche a vendere titoli, le perdite diventano reali.

Ma la fine dell’era del credito facile, l’arrivo dell’inflazione e quindi l’inevitabile rialzo dei tassi, faranno apparire debolezze nascoste in molti altri luoghi. La bolla di Big Tech è stata una delle prime a scoppiare. Il mercato immobiliare è un altro settore molto esposto. E poi’ c’è tutto il vasto mondo che noi non vediamo: il Grande Sud globale. Di recente ho incontrato qui a New York il presidente della Banca Mondiale, David Malpass. Ecco cosa dice colui che è, a tutti gli effetti, il più grande prestatore per i paesi emergenti: «Lo shock più tremendo provocato dai rialzi dei tassi è quello che colpisce i paesi poveri. Anche verso le nazioni emergenti c’è stato un periodo di credito troppo facile, ora arriva il contraccolpo. Sarà tanto più duro, in quanto nei prossimi anni i paesi ricchi assorbiranno una quota preponderante dei capitali globali solo per il servizio del proprio debito pubblico, il cui onere cresce». La lista delle bancarotte sovrane si sta allungando, dal Sudamerica all’Africa all’Asia. Se fallisce un’intera nazione ci fa meno impressione rispetto al crac di una banca occidentale, perché non sono coinvolti direttamente i nostri risparmi. Non significa che non saremo colpiti anche noi, in altri modi.

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