Minà, quel gigantesco cronista che raccontò i grandi come nessuno

Nulla di strano perché era socievole e affabile, incisivo però mai aggressivo, per questo con lui diventava facile aprirsi, mettere a nudo stati d’animo, svelare paure e confessare speranze. Ha fatto mille cose, ma nelle interviste era davvero un fuoriclasse: soprattutto in quelle televisive, incalzanti nella gentilezza, intriganti nella sobrietà, curiose nel rispetto. «Il mio è stato un giornalismo controcorrente – diceva – e il segreto è che ho raccontato il mondo attraverso le voci dei protagonisti»: ne ha raccolte tante, le più importanti del Novecento, ma raramente, voltandosi indietro, si soffermava. E se lo faceva era per garbo verso chi, ammirato, lo sollecitava. A testimoniare invece, ancor di più, quella semplicità che noi ragazzi degli anni Novanta scoprivamo orgogliosi attorno a tavoli di locali semideserti, le confidenze sulle interviste sfumate: non la soddisfazione per i mille personaggi raccontati, tra invidie e ammirazioni, ma i rimpianti per quelli sfuggiti, Paul Mc Cartney con il quale progettò un documentario mai realizzato per reciproci impegni e Nelson Mandela con cui si rincorse «per due anni e poi non se ne fece più nulla».

La malattia che l’ha portato via è stata breve, ma il tramonto non semplice: la vista affaticata ha complicato la lettura, una delle sue grandi passioni, però mai abbandonata. Ha anche scritto e studiato fino all’ultimo. E quando si sentiva giù, quando la malinconia lo avvolgeva come era già capitato, in particolare, nei giorni per tutti duri della pandemia, ripeteva a se stesso le parole di Muhammed Ali: «Ho ricevuto così tanto dal mio Dio che neanche questa malattia può minimamente pareggiare quello che ho ricevuto da Lui».

LA STAMPA

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