Bonomi: «Recovery, errori a monte. Seguire il modello Biden. Nomine, conti il merito»
di Federico Fubini
Presidente, sembra che il Piano nazionale di ripresa e resilienza abbia difficoltà. Da dove nascono secondo lei?
«Dall’origine:
a Villa Pamphili nel giugno del 2020. Lì ebbi un confronto con l’allora
presidente del Consiglio, perché noi immaginavamo un Piano che si
concentrasse a rafforzare il potenziale di crescita del Paese. Ci siamo
invece ritrovati di fronte ad una serie di interventi a pioggia per
rispondere alle varie costituency elettorali».
L’impianto del Pnrr resta quello?
«È
arrivato il governo di Mario Draghi, certo. Ma dall’insediamento ebbe
quaranta giorni per rifare il piano vaccinale e il Pnrr. Quindi non ci
fu il tempo di cambiare molto, cambiò le prime 80 pagine su milestones e
riforme, ma le sei missioni di destinazione delle risorse restarono
quelle del governo Conte. Le riforme erano necessarie e fondamentali:
a partire da quella della pubblica amministrazione. Eppure ancora oggi
non le stiamo affrontando: per avere un passaporto ci vogliono ancora
nove mesi e per realizzare un’opera pubblica da oltre cento milioni di
euro, ci vogliono in media 15,7 anni».
Per salvare il Pnrr preferirebbe un
sistema di crediti d’imposta per investimenti verdi o digitali, sul
modello di Industria 4.0 o dell’Inflation Reduction Act americano?
«Sicuro,
perché siamo a un bivio. O andiamo avanti rendicontando qualunque cosa e
buttando via i soldi; oppure rinunciamo ai progetti inutili e ci
concentriamo su ciò che si può realizzare e che serve davvero.
Si può immaginare un sistema tipo Industria 5.0, basato su crediti
d’imposta, nel quale la stazione appaltante finale è l’industria
privata. Quella che investe. Sarebbe una politica industriale con la
persona al centro, dal green, al digitale, al biotech, all’intelligenza
artificiale, al lavoro, alla formazione. È il modello applicato da Joe
Biden con l’Ira».
Sembra che uno dei problemi del Pnrr sia nel sistema di governo del piano, che resta incompiuto.
«Vedremo, ma il problema vero è
la troppa burocrazia della pubblica amministrazione. Con il Pnrr ci era
stato assicurato che le riforme sarebbero state attuate. Il risultato è
sotto gli occhi di tutti».
Vuole dire che le riforme del Pnrr sono rimaste in superficie? Anche quella della giustizia?
«Anche quella in molte parti essenziali è stata fermata».
Ma allora Bruxelles fa bene a bloccarci i fondi?
«Era
sbagliato in origine il piano. Ma c’è un però. Capisco i dubbi sul
finanziare col Pnrr gli stadi di Firenze e Venezia, ma la Commissione Ue
aveva approvato. Scopre che non va bene solo ora?».
Davvero lei pensa che in Europa si facciano due pesi e due misure fra governo Draghi e governo Meloni?
«Non
credo, ma a questo governo cosa posso imputare? Il Piano è stato
predisposto da Conte ed è stato chiuso da Draghi, che più di tanto non
ha potuto cambiarlo. L’attuale governo lo eredita e ha la responsabilità
di realizzarlo con un’amministrazione pubblica che non sta funzionando.
Ma deve a maggior ragione avere il coraggio di fare le riforme che
servono».
Come quella del codice degli appalti? In base ad essa 98% delle opere si può assegnare senza gara. Difficile che giovi a concorrenza e produttività, non trova?
«Certo,
ci sono dei grossi rischi. Da un lato molti enti possono decidere di
assegnare i contratti solo alle grandi aziende per non esporsi a
contestazioni, ma così si finisce per penalizzare le piccole e medie
imprese. Dall’altro si aprono le porte alle decisioni discrezionali dei
partiti e di chi premia gli amici degli amici. Un codice fatto così non
incide sui problemi di produttività, trasparenza, chiarezza operativa».
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