Visita di Draghi a Mattarella prima del pranzo di Meloni al Colle, sul tavolo i nodi del Recovery
Ilario Lombardo
A metà della scorsa settimana Mario Draghi è stato ricevuto al Quirinale da Sergio Mattarella. Un incontro avvenuto tra mercoledì e giovedì, ufficialmente senza un motivo preciso: l’ex presidente del Consiglio e il Capo dello Stato non si vedevano di persona da un po’ e hanno trovato tempo e modo di farlo in quelle ore.
Non sono giorni qualsiasi, però. Le tensioni sul Piano nazionale di ripresa e di resilienza sono già esplose. Da Bruxelles arrivano distinguo, dubbi e richieste di approfondimento sui progetti finanziati con le risorse europee. Sullo sfondo ci sono vuoti normativi che il centrodestra italiano si ostina a non voler riempire. Sui balneari, innanzitutto. Così matura l’ultimatum dell’Ue sulla terza tranche dei finanziamenti, quella che in teoria copre gli impegni del secondo semestre del 2022.
Il governo di Giorgia Meloni si sente assediato, i ministri di Fratelli d’Italia reagiscono d’impulso accusando l’Europa di mostrare un volto più severo rispetto a quando a Palazzo Chigi sedeva Draghi. Anche l’ex presidente della Bce finisce nel mirino. È a lui che i meloniani, compreso il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, addossano le responsabilità di progetti «irrealizzabili», dei ritardi sugli obiettivi, di una struttura per la gestione e l’implementazione del piano che non è stata adeguatamente potenziata.
La destra sovranista è in difficoltà. Sta trattando con l’Europa nella speranza di avere più ossigeno, proponendo di allungare le scadenze del piano oltre il 2026 o rimodulando progetti e traguardi sfruttando anche i fondi di coesione e le risorse del RePowerEu destinati alla transizione energetica. Il clima però si intorbidisce. I diplomatici italiani a Bruxelles sono preoccupati. Uno di loro spiega alla Stampa che «la situazione è seria», un ministro sotto anonimato confida sempre a questo giornale che realisticamente l’Italia sarà in grado di spendere solo meno della metà dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund, ottenuti da Giuseppe Conte nell’estate del 2020. Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, quotidianamente in contatto con Fitto e con Palazzo Chigi, cerca di smussare il nervosismo dei suoi interlocutori. Anche lui, di passaggio a Roma, sarebbe salito al Quirinale, più o meno nelle stesse ore in cui Mattarella riceve Draghi.
Attorno a Meloni si fa largo l’idea di promuovere «un’operazione verità». Proprio così la chiamano i ministri e il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, braccio destro della premier, ascoltatissimo sulle strategie d’assalto ai nemici storici (Ue, sinistra, banche). L’obiettivo è chiaro: dire come stanno le cose, individuare le colpe, sostenere che si tratta di un’eredità dei precedenti governi. L’operazione parte ma trova un ostacolo: Draghi. L’ex premier non ci sta a fare da capro espiatorio per un negoziato con l’Ue che si sta avvitando in un frustrante scaricabarile. Filtra il suo fastidio e attraverso i collaboratori fa sapere di aver lasciato tutto in ordine, Pnrr compreso, al momento del passaggio di consegne, lo scorso ottobre. Meloni capisce e lo cerca al telefono. Per giustificarsi, ma anche per confessare il suo disagio di fronte al puntiglio europeo. A quel punto, però, la premier è già consapevole che i toni vanno raffreddati il prima possibile.
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