Cara Meloni, la Ue aspetta il suo piano
MASSIMO GIANNINI
L’Italia pare davvero la Nave dei Folli. Ci stiamo giocando i fondi europei. Stiamo mandando in fumo almeno metà dei 191,5 miliardi che l’Europa ci ha messo a disposizione di qui al 2026. In un impeto di dissennato autolesionismo, sembriamo quasi sollevati nel riconoscere che «non c’è niente da fare». Sembra quasi di cogliere un senso di liberazione, nel mondo politico e imprenditoriale che alza le mani e dice «non possiamo farcela», «il Sistema-Paese non è in grado di spendere un volume di investimenti di quella portata», «la nostra burocrazia non ce lo permette», «gli enti locali non hanno capacità progettuale», «i grandi contractor pubblici e privati più di tante risorse non possono assorbire». Siamo onesti. È vero che l’Italia, su riforme strutturali e investimenti infrastrutturali, ha difficoltà ataviche e non risolvibili in pochi mesi.
Se così non fosse, non saremmo il fanalino di coda sull’utilizzo dei Fondi di coesione, che riusciamo a spendere per una quota annua inferiore al 60 per cento. Ma è altrettanto vero che il Next Generation Eu era e sarebbe ancora l’occasione per invertire la rotta. O almeno per provarci. Ma non sta succedendo. Viceversa, anche in questa circostanza riusciamo a sfoderare la solita, ineluttabile “sindrome del fallimento”. Come se fosse vano dare il massimo per portare a casa il risultato. Del resto, se in un anno abbiamo completato l’1 per cento dei progetti e speso il 6 per cento dei finanziamenti, non può dipendere solo dallo storico deficit di efficienza della macchina statuale. C’è dell’altro. Un tempo si sarebbe detto «manca la volontà politica». Oggi, forse, è ancora così. O per lo meno questa è la sensazione, e la preoccupazione, che si toccano con mano tra le istituzioni europee. Colpite da un certo stupore, mentre contemplano l’affannata inconcludenza tricolore.
Sergio Mattarella, che con le istituzioni comunitarie mantiene contatti quotidiani, ne è ben consapevole. Per questo il 24 marzo ha suonato l’allarme, riprendendo l’appello post-bellico di De Gasperi: «È il momento per tutti, a partire dall’attuazione del Pnrr, di mettersi alla stanga». Sono passati dieci giorni, ma “alla stanga” pare non si sia messo nessuno. Hanno parlato ministri e sottosegretari, leader di partito e esponenti della maggioranza, presidenti di regione e sindaci. Tutti si sono limitati a prendere atto dei ritardi, e a rinnovare generici propositi di accelerazione. Anche per questo il presidente della Repubblica ha voluto incontrare Giorgia Meloni, venerdì scorso, e spronarla a fare atti concreti per sbloccare gli ingranaggi dell’Amministrazione e della gestione.
Lo stesso sollecito, in modo formale e informale, è arrivato anche da Francoforte e da Bruxelles. Christine Lagarde, nella sua due giorni fiorentina organizzata dall’Osservatorio Permanente Giovani Editori di Andrea Ceccherini, lo ha detto ai tanti interlocutori istituzionali che le hanno chiesto lumi sulle difficoltà nella messa a terra del Pnrr: «Italy must deliver it… Please, let’s do it!». Quasi una preghiera. E si capisce perché anche la presidente della Banca Centrale Europea speri nel nostro Piano di Ripresa e Resilienza. Nutre la stessa apprensione che comincia a insinuarsi tra i mercati finanziari, per ora rimasti in posizione neutral sull’Italia, complice la buona tenuta dei conti pubblici che ha mantenuto basso lo spread dei nostri titoli di Stato. Ma nessuno può prevedere cosa potrebbe succedere, nel momento in cui il governo dovesse davvero gettare la spugna, e perdere le prossime due rate del Pnrr previste di qui alla fine dell’anno.
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