Bomba a San Pietroburgo, pista ucraina o faida nazionalista: non è un attentato qualunque
ANNA ZAFESOVA
SAN PIETROBURGO. «Vinceremo tutti, li uccideremo tutti, li rapineremo tutti, tutto come piace a noi»: Vladlen Tatarsky aveva molto probabilmente firmato la sua condanna a morte con questa frase, pronunciata a pochi metri dal presidente Vladimir Putin, nella sala del Cremlino dove era stata appena proclamata l’annessione dei territori ucraini occupati dall’esercito russo. Da «inviato di guerra» – anche se Tatarsky era in realtà un militante del Donbass che si era improvvisato blogger – era diventato il volto brutale dell’invasione, l’uomo che gioiva in pubblico per i bombardamenti russi delle centrali elettriche, perché «più maiali ucraini sarebbero morti senza poter venire operati in ospedale».
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Chiunque l’abbia ucciso l’ha scelto come bersaglio proprio per questo, e la scenografia di un bar dal nome altisonante «Patriot», che ospitava regolarmente raduni dei fan della «Z» simbolo del militarismo russo, non è casuale. Considerando che il bar si trovava in pieno centro della città natale di Vladimir Putin e dei membri del suo clan, e apparteneva probabilmente a Evgeny Prigozhin, capo del gruppo Wagner oltre che ristoratore di successo pietroburghese, la bomba al «Patriot» non è un regolamento di conti qualunque.
La scontata «pista ucraina» viene già battuta dai propagandisti russi, che chiedono vendetta, spaventati da quella che ritengono una azione punitiva contro un collega. Non c’è dubbio che diventerà la versione ufficiale dell’attentato. L’impatto di un attentato esplosivo a Pietroburgo è pesante, e indipendentemente da chi possa esserne l’autore manda un messaggio di pericolo, trasforma una guerra lontana e televisiva (soprattutto per gli abitanti delle due capitali) in qualcosa che potrebbe riguardare chiunque. Accusarne gli infiltrati ucraini, come era già stato fatto con Daria Dugina, figlia del filosofo di estrema destra Aleksandr Dugin, aumenta la paura del nemico, ma anche la percezione di essere vulnerabili. E mentre i misteri sulla dinamica restano numerosi, non può non colpire una circostanza: è il secondo attentato clamoroso nel cuore della Russia, dall’inizio della guerra, che va a colpire un esponente poco famoso ma molto simbolico della frangia più estrema della destra nazionalista russa.
Potrebbe certamente trattarsi davvero di rappresaglie degli ucraini, e la scelta di personaggi poco noti può essere spiegata con la relativa facilità di avvicinarli rispetto ai propagandisti di serie A. Stesso motivo per cui però potrebbero invece essere stati scelti per una provocazione dagli stessi servizi russi: un personaggio come Tatarsky è probabilmente più utile da morto che da vivo, il «vero russo e vero cristiano» come lo chiama Aleksandr Dugin in nome del quale lanciare un attacco agli ucraini o alla «quinta colonna» dei russi contrari alla guerra. Nei canali Telegram dei nazionalisti cominciano però anche a serpeggiare sospetti di faide interne alla estrema destra, e il consigliere di Zelensky Mikhaylo Podolyak parla di «ragni che si divorano tra di loro, chiusi dentro un barattolo». Ma la morte di Tatarsky potrebbe anche essere un segnale inviato a qualcun altro: secondo alcune voci, Prigozhin in persona avrebbe dovuto visitare il suo bar per salutare il blogger.
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