Renzi, Il Riformista e la teoria dell’alibi. Centomila ruoli, nessuna responsabilità

Gabriele Romagnoli

No, neppure lui «l’hanno visto arrivare»: Matteo Renzi direttore di giornale, del Riformista. La sorpresa lo entusiasma quanto la cosa in sé: «Siamo stati bravini, non l’abbiamo detto neppure allo specchio». Che pure frequenta spesso, non fosse che per confidargli le sue vaste brame. Questa forse non l’aveva neppure, ma gliel’hanno proposto (Gianni Cuperlo, Piero Sansonetti, Alfredo Romeo, la sua coscienza riformista) e come poteva rifiutare? Quando nella vita hai fatto tutto quel che sognavi, non ti resta che andare a vedere com’è quel che non avevi mai desiderato. Se puoi. E lui può. Un giro su sé stesso et voilà, ecco la nuova incarnazione. Ci sono i tuttologi e i tuttisti: Renzi, la seconda che ho detto. Per lui il giornalismo è la continuazione della politica con altri mezzi. Non vede contraddizioni o controindicazioni. «Non lascio, raddoppio». In realtà: non lascia, disgiunge.

Da quando la sua parabola ha iniziato la discesa, la notte del referendum, (4 dicembre 2016), che feralmente ricorda come tutti gli scampati alla propria fine, Renzi ha creato una nuova dottrina politica, inevitabilmente personale. Riformismo? Liberal-socialismo? Centrismo? No, è la teoria dell’alibi. O meglio, di una ubiquità intermittente che consente di coprire più ruoli senza assumersi la responsabilità di alcuno. Se il partito crolla a un’elezione regionale, lui era impegnato come maratoneta. Se l’alleanza non funziona, lui non ne era il leader, ma un conferenziere in giro per il mondo.

Quante cose è stato Renzi da quella notte, quanti altrove ha visto, quanti alibi di ferro. L’uomo dell’e/o. Sempre pronto a scegliere la congiunzione più adatta al momento. Speaker internazionale, consulente in Arabia Saudita, consigliere d’amministrazione in Russia, conduttore di una docu-serie televisiva dedicata a Firenze, king-maker, king-killer, ha fatto nascere il Conte 2, ha ucciso il Conte 3, contro Salvini, con Salvini. Ha dissipato l’eredità di Gramsci e non ha riscosso quella di Berlusconi. Che colpo sarebbe stato se l’editore Romeo gli avesse affidato l’altro suo giornale, l’Unità. Come idea di marketing però è ancor meglio Il Riformista. Che direttore sarà? In conferenza stampa glissa sul precedente di Veltroni e ricorda “umilmente” quello di Mattarella. Si intuisce che gli provoca più prurito Elly Schlein di Giorgia Meloni. Cita due pensatori: Mike Bongiorno e Flavio Briatore. Il contratto non è ancora firmato. Non si conosce il compenso, ma la durata sì: un anno. «Poi vedrò che cosa fare da grande». Lo è già stato. Ieri.

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