L’orologio che ha rovinato Macron

I giovani, ha spiegato lo scrittore Emmanuel Carrère, non sono scesi in piazza perché da vecchi dovranno lavorare due anni in più, ma per ribellarsi a una vita che si annuncia «de merde» (termine che nel linguaggio pubblico francese suona quasi abituale o comunque meno urticante che in italiano). Se alla vigilia del Sessantotto la Francia si annoiava, oggi, al tempo dei Gilet gialli e dei ferrovieri sempre in sciopero, sente di non contare più nulla, vede i salari erosi dall’inflazione, i mestieri cancellati o stravolti dalla tecnologia, la vita di relazione impoverita dai social; e non trova nel presidente non si dice una soluzione, ma almeno un’attenzione. Perché Giscard, oltre che dei diamanti, è anche il presidente del divorzio, dei diritti civili, della modernizzazione liberale; Macron è fondamentalmente l’argine contro il populismo, di destra e di sinistra, ma non è riuscito a risolvere le questioni da cui il populismo trae vita e forza.

Di questa vicenda resterà l’immagine dell’orologio tolto sotto il tavolo non perché sia la più importante, ma perché fotografa spietatamente l’idea di Macron come uomo delle élites, arresta il tempo della sua presidenza alla difesa dell’establishment, fissa magari ingiustamente il fermo-immagine del privilegio, della distanza dal popolo, dell’incapacità sia di affrontare i problemi epocali, sia di chinarsi sul solco delle piccole vite.

Macron, il quale è tutt’altro che uno sprovveduto, ha subito provato a rilanciare sulla politica estera. Un anno fa tentava invano di ammansire Putin. Stavolta è andato da Xi Jinping. La sua rivendicazione della sovranità francese e dell’autonomia europea è stata letta a Washington come un mezzo tradimento in una fase drammatica della storia, con l’Ucraina aggredita dai russi e Taiwan in bilico. In realtà, Macron si muove in continuità con la politica della destra repubblicana del suo Paese. De Gaulle uscì dal comando integrato della Nato. Chirac — a differenza del laburista Blair — rifiutò di seguire Bush nella guerra in Iraq.

Ma alla fine persino un gigante della storia come il Generale viene ricordato per qualche piccola cosa. Facezie, magari false o ricamate, tipo «impossibile governare un Paese che ha 246 tipi di formaggio» (i numeri cambiano, secondo un’altra versione De Gaulle si sarebbe chiesto come governare un Paese che ha più formaggi dei giorni del calendario); e poi, ovviamente, «vasto programma» a chi gli grida «morte ai coglioni!». A De Gaulle hanno pure sparato (e lui graziò i sicari ma fece giustiziare il mandante, dicendo che «la cattiva mira non è un attenuante»); ma nessuno l’avrebbe mai preso a schiaffi per strada, com’è accaduto a Macron. A noi piace ricordare il Generale che, alla vigilia del ballottaggio del 1965 con Mitterrand, ordina al ministro degli Interni, che gli aveva trovato la foto del rivale con il capo della polizia di Vichy: «Metta via quella roba». Quando si era spento il suo antico mentore Pétain, vincitore della Grande Guerra ma condannato alla fucilazione per collaborazionismo (e poi graziato proprio da lui), sul certificato di morte scrissero «sans profession», come fosse un cadavere anonimo raccolto per strada. De Gaulle disse: «Scrivete: “Philippe Pétain, maréchal de France”». E nessuno si è mai chiesto quale orologio portasse mentre lo diceva, e quanto valesse.

CORRIERE.IT

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