Quei soliti metodi per le poltrone di stato
Montesquieu
Da un paio di lustri, più o meno dopo il governo di Mario Monti, la nostra politica (con l’eccezione della fiammata autocombustiva del governo Renzi), sforna legislature capaci al più di una sterile e penosa sopravvivenza. Un rischio serio, soprattutto se replicato, per un sistema democratico. Se noi continuiamo a essere una quasi tranquilla democrazia, lo dobbiamo al pronto soccorso istituzionale del nostro Capo dello Stato, intuizione geniale dei mai abbastanza ringraziati costituenti, in tempi in cui si sbriciolano le barriere tra democrazie e autocrazie, col compiacente stadio solo all’apparenza intermedio delle cosiddette democrature. A lui, al Capo dello Stato, la Costituzione affida la formazione del governo o, se impossibile, la decisione di sciogliere le Camere. Il compito degli elettori, nel nostro ordinamento, si esaurisce con l’elezione dei propri rappresentanti nelle due Camere. Così, il sistema è in sicurezza, comunque tenuto in vita con una sorta di coma farmacologico che attenua la debolezza dell’offerta politica, e tutela la funzionalità, a basso regime, dei fondamentali organi costituzionali. In attesa che la politica si riconcili con la propria fondamentale funzione.
Così fino allo scorso 25 settembre, una data che rappresenta, per molti, una sorta di natale di una nuova politica: una donna al comando del Paese. Non una “quota rosa”, scelta dagli uomini della politica nell’apposito, raffinato catalogo, destinato a perpetrare il potere maschile; bensì la forza di una donna che conquista prima un partito, il suo, il meno sensibile alle istanze della parità di genere. E poi attraverso il voto, la guida del governo del Paese. Gli uomini non mancano, in quello schieramento, e nemmeno le loro ambizioni, subito rimesse nel fodero dietro un sorriso tirato. Una rivoluzione , attesa da più di settant’anni, per chi è certo che tutto ora cambierà per il meglio; una novità, seguita con curiosità e buona disposizione da chi non ha prevenzioni o preferenze di genere, ma giudica intollerabile lo squilibrio di rappresentanza. Ma reputa il giudizio più attendibile del pregiudizio. Inseguita la novità, immediatamente, per la forza dell’emulazione, da un segnale di tendenza verso la stessa direzione nel versante opposto della nostra politica: la conquista da parte di una candidata (tutt’altro una “quota rosa”, anche questa ) della segreteria del principale partito avversario, il Partito democratico. Una spinta verso una sfida per il governo completamente al femminile.
Ce ne sarà, da osservare e commentare, a cominciare da ora. I primi passi del governo Meloni consegnano elementi insufficienti, al di là delle ideologie, per formulare previsioni d’insieme. Se non si considera tale la conferma di una raffinata, e oramai rara in entrambi i generi, capacità politica del presidente del Consiglio, e di un promettente avviamento di temibili relazioni sovranazionali e internazionali. Difficile da giudicare il primo atto del presidente del Consiglio in quello che è da sempre il punto debole dei nostri governi, la formazione della immensa (assai più del dovuto) dirigenza del Paese attraverso la politica delle nomine di spettanza governativa e politica in generale.
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