Miriam Mafai, il giornalismo come passione civile e la capacità di dire: voglio avere tutto
Annalisa Cuzzocrea
Comincio a dirvi chi non era, Miriam Mafai, perché non ci siano fraintendimenti. Miriam, che ha dedicato la sua vita fin da giovanissima alla causa del Partito Comunista Italiano, non era la ragazza rossa. Era una ragazza libera e lo è stata fino all’ultimo istante della sua vita. Non ha mai smesso di usare la ragione e non si è mai fatta tappare gli occhi dall’ideologia. Pur avendo – e sì che ce l’aveva – una fede incrollabile. Che viene fuori da qualsiasi cosa abbia scritto.Miriam credeva che l’ascolto, l’impegno, il lavoro, le parole, potessero cambiare il mondo. Non è mai stata pessimista perché non è mai stata arresa.
Quando ho cominciato a leggere tutto di lei, la prima cosa che ho invidiato – quante cose belle smuove l’invidia – è la passione civile. E quello che ho pensato è che quello che manca nel giornalismo, oggi, è la passione civile. Credere in qualcosa: lottare perché si affermi. Mi direte che questa è politica: andatelo a dire a George Orwell.
C’è una politica – la ricerca del bene della polis, della comunità – che si può fare fuori dai partiti e dalle istituzioni e Miriam Mafai l’ha fatta tanto più da giornalista che da funzionaria di partito, cosa che pure è stata, perché altrimenti non avrebbe saputo raccontare l’emancipazione delle donne durante la tragedia della Seconda guerra mondiale in Pane nero. Altrimenti, non sarebbe andata a descrivere cos’erano quelli che a noi sembrano oggi i pittoreschi sassi di Matera, un luogo dove le persone, i bambini, vivevano come bestie. Non avrebbe fatto un giro nelle miniere d’oltralpe in cui i reietti, nel dopoguerra, eravamo noi, i mangiaspaghetti, gli italiani umiliati e offesi degli anni dell’emigrazione di massa.
Se non ti spinge la certezza che la parola possa muovere qualcosa, che possa essere spada, come scriveva Leonardo Sciascia, non puoi neanche avvicinarti a capire chi era Miriam Mafai. L’incipit della sua biografia, Una vita quasi due, curata dalla figlia Sara Scalia, che non smetterò mai di ringraziare per l’ottima vellutata di zucca e per la fiducia con cui mi ha affidato i suoi ricordi, è questo: «Sono nata sotto il segno felice del disordine». Miriam viene da una famiglia fuori dalle regole ed è sempre rimasta fuori dalle regole, se per regole si intendono le convenzioni senza senso, la forma priva di sostanza. E non ha mai sbandato. Non ha mai smesso di seguire il filo della sua libertà e del suo impegno.
Aveva, come molti della sua generazione cresciuta dentro la carta stampata, il culto del giornale. Il giornale veniva prima di tutto. E c’è una cosa che spesso non si racconta di Miriam Mafai, perché la sua biografia e il suo carattere sono stati talmente particolari da prendersi tutta la scena: non si parla abbastanza dello stile. Della sua prosa asciutta arsa secca e al tempo vividissima. Della precisione del dettaglio. Del ritmo che segue uno spartito suo. Dei colori che sembrano venire da uno dei quadri di Mario Mafai.
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