Perché l’Italia ha bisogno di una destra “normale”
È evidente, all’uomo che sussurra al busto di Mussolini piace provocare. Magari c’è anche del metodo, in tanta follia istigatrice. Berlusconi, ai tempi d’oro, la praticava quotidianamente e Alessandro Amadori, politologo e psicologo, la codificò in modo scientifico. Si chiama “schismogenesi”: lanci una provocazione, meglio ancora se in modo informale, e inneschi automaticamente la reazione uguale e contraria dell’avversario, così ne puoi denunciare il settarismo, l’intolleranza, l’odio. Sull’antifascismo succede esattamente questo. A destra la sparano grossa, a sinistra rispondono indignati, e il gioco è fatto. Nella migliore delle ipotesi, sono tutti uguali e tutti ugualmente responsabili dell’avvelenamento dei pozzi. Nella peggiore, i “professionisti dell’antifascismo” sono più colpevoli dei nostalgici del fascismo. È la stessa logica, attualizzata, che denunciava Norberto Bobbio: il tentativo di passare dall’equiparazione tra fascismo e comunismo all’equidistanza tra fascismo e antifascismo. La Russa, per “mettere tutti d’accordo”, non ha forse annunciato che il 25 aprile andrà prima a Praga, sulla tomba di Jan Palach, per celebrare i crimini del comunismo, e poi a Teresienstadt, per commemorare quelli del nazismo? E i famosi “intellettuali d’area”, insieme a qualche scappato di casa del Piccolo Centro, oggi non sostengono forse che la colpa del rancore intorno alla Festa della Liberazione è di Elly Schlein che va a deporre fiori sulla lapide di Matteotti e della sinistra estrema “che vede fascisti dappertutto”?
Noi a questo gioco non vogliamo giocare. Il 25 aprile è la festa della libertà di un intero popolo dalla dittatura fascista, così come la Costituzione fondata sulla Resistenza al tiranno è la Casa di tutti gli italiani. Celebrare tutto questo, con solennità e responsabilità, non è brindare al “sangue dei vinti”, ma è riconoscere che i valori riaffermati e riconquistati con quella vittoria sono oggi patrimonio comune e condiviso dell’intera nazione. Se nel governo e nella maggioranza c’è qualcuno che non lo fa, o addirittura fa il contrario, è perché conserva una riserva mentale e culturale, oltre che un “non detto” politico, di fronte ai quali non possiamo e non dobbiamo restare indifferenti. E lo ribadiamo, ancora una volta: non perché abbiamo paura del fascismo alle porte o delle camicie nere in cammino verso la Capitale. Ma perché abbiamo bisogno di condivisione della memoria e dei valori costituzionali di libertà e uguaglianza. Abbiamo bisogno di vera pacificazione tra gli schieramenti e di piena legittimazione di tutte le forze che si alternano al governo del Paese.
E qui torniamo a Galli della Loggia: la nostra Storia – sostiene – è stata fatta anche di “necessari oblii” e di “opportune dimenticanze”. Dunque oggi dovremmo far calare l’oblio sul Ventennio. Dimenticare il Binario 21 o Via Tasso, Matteotti o Liliana Segre. D’altra parte, aggiunge l’editorialista sul Corriere della Sera, cos’avremmo pensato se nel ’76, quando Pietro Ingrao fu eletto presidente della Camera, gli avessimo chiesto conto “del comunismo, dei gulag e delle Fosse di Katyn”? Ecco il punto. Ecco l’impossibile equivalenza. A chi ragiona così dovremmo ricordare che è proprio ciò che abbiamo fatto in questi ultimi decenni. Non ci siamo mai stancati di chiedere ai comunisti l’abiura di tutte le mostruosità commesse da Stalin e dagli aguzzini del “socialismo reale”. Abbiamo giustamente accusato e tormentato il Pci, per i clamorosi e vergognosi ritardi con i quali ha preso le distanze e infine tagliato le radici del suo retaggio ideologico, solo dopo la caduta del Muro. Lo sappiamo, la storia non si fa con i “se”: se il Partito comunista italiano avesse rotto con l’Urss all’indomani dei fatti di Ungheria, come nel “Sol dell’Avvenire” di Nanni Moretti, oggi probabilmente l’Italia sarebbe un altro Paese. Ma alla fine la cesura c’è stata. Troppo tardi, certamente. Ma c’è stata. Lo stesso Ingrao firmò un editoriale terrificante sull’Unità, il 24 ottobre del ’56, proprio quando i carrarmati di Mosca invasero Budapest in rivolta: “Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari – scrisse – si sta da una parte o dall’altra della barricata”. Ma negli anni successivi definì quello “l’errore più grave della mia vita”. Se ne pentì pubblicamente. Poco dopo pubblicò il Rapporto Krusciov sulle stragi dello stalinismo, senza aspettare il via libera di Togliatti. Nel ’68, quando l’invasione sovietica si replicò in Cecoslovacchia, la condannò senza aspettare la decisione del Comitato Centrale. “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”. E poi: “C’è poco da fare, siamo stati sconfitti”. Queste furono le sue dolorose ammissioni.
Pensate cosa accadrebbe, se dopodomani Meloni e La Russa festeggiassero il 25 aprile dicendo le stesse cose sul fascismo. L’Italia volterebbe pagina, una volta e per sempre. E la finiremmo anche con l’ignavia cinica e benaltrista di chi ripete “basta occuparsi del fascismo e dell’antifascismo, pensate all’inflazione o all’occupazione”. Come se un Paese vivesse per compartimenti stagni, e una visione del mondo, e una certa idea dell’Italia, non contemplassero, tutti assieme, i principi etici e i bisogni economici. Come è successo per la sinistra, oggi abbiamo altrettanto bisogno di una destra “normale”. Per questo la critichiamo, per questo la incalziamo. E per questo, dal 25 aprile e per sempre, continueremo a dire a questo governo e a questa maggioranza quello che Antonio Gramsci disse proprio a Mussolini, in un memorabile duello parlamentare, il 16 maggio 1925. Alla Camera si discuteva della legge sulle società segrete. Dopo un continuo botta e risposta tra i due, inframmezzato dalle proteste dell’aula e dalle interruzioni di Farinacci, all’ennesimo intervento critico del deputato comunista il presidente dell’aula sbottò: “Onorevole, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte, abbia la bontà, non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!”. Gramsci esitò qualche secondo, poi rispose: “Bisogna ripeterle, invece. Bisogna che lo sentiate fino alla nausea”.
LA STAMPA
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