Dal Golfo agli Usa, gli assist a Di Maio che hanno blindato la nomina

dal nostro corrispondente Claudio Tito

LUSSEMBURGO – “Noi non bloccheremo la nomina di Luigi Di Maio anche perché non possiamo farlo. Noi vogliamo sottolineare che non è una nostra scelta”. Al termine del Consiglio dei ministri Ue degli Esteri, Antonio Tajani torna a spiegare la posizione del governo sull’incarico di inviato speciale dell’Unione per il Golfo Persico. È un via libera. Amaro ma ormai formale. Perché l’Italia non poteva più dire “no”.

Dunque nessun veto e nessuna battaglia sulla designazione dell’ex responsabile della Farnesina. Anche l’esecutivo Meloni, alla fine, ha deciso di non alzare le barricate. Ma perché? Nelle ultime settimane sono intervenuti tre fattori “esterni” e uno “interno”.

Il primo: nei contatti intrattenuti dall’alto rappresentante per la Politica estera Ue, Josep Borrell, – l’unico soggetto a cui spetta la nomina – è emerso un primo elemento fondamentale. Tutti i Paesi del Golfo hanno espresso un parere favorevole all’incarico per Di Maio. Compresi gli Emirati e il Qatar, due “partner energetici” fondamentali per l’Italia e per l’Europa. Hanno dato il loro via libera non per i rapporti diretti con l’ex esponente grillino, ma per il dialogo tessuto negli ultimi due anni con Mario Draghi.

Sostanzialmente i vertici di quell’area si sono convinti che Di Maio sia un uomo dell’ex presidente della Bce. O almeno che abbia caldeggiato la sua indicazione. E i Paesi del Golfo Persico sono abituati a replicare i rapporti che hanno giudicato positivamente. Una sorta di elemento di stabilità che prescinde dalle capacità dell’inviato speciale. Per la Commissione europea sapere che il suo inviato è ben accetto non rappresenta una questione secondaria.

Secondo fattore: in questo quadro anche gli Usa, che guardano sempre con particolare attenzione a quella parte di mondo, si sono sentiti tranquillizzati per lo stesso motivo. E come se ci fosse ancora l’azione di Draghi o il suo ombrello protettivo anche fuori da Palazzo Chigi. Anche in questo caso, il benestare di Washington non è ininfluente né a Bruxelles né a Roma.

Terzo fattore: l’irritazione dei due principali partner europei, la Francia e la Germania, nei confronti di Giorgia Meloni. Le posizioni ostative di Palazzo Chigi su troppi fronti hanno indotto Parigi e Berlino a lanciare un messaggio e a chiudere il discorso. Un modo per far capire che in Europa si ottiene con il dialogo e non i pugni sul tavolo.

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