Pd e M5s, dialogo e piroette a sinistra

di Paolo Mieli

A due mesi dalle primarie che elevarono Elly Schlein al vertice del Pd, si può tracciare un bilancio più che positivo dei sessanta giorni trascorsi. Nei sondaggi il partito è tornato a collocarsi stabilmente sopra il 20 per cento e ha lasciato il M5S dietro di cinque punti. La nuova segreteria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica giornata. Né i dem si mostrano preoccupati dalle insidiose iniziative provenienti da sinistra, neanche dai referendum contro le armi a Zelensky o l’assai pubblicizzata «Staffetta dell’Umanità» di Michele Santoro per «unire l’Italia contro la guerra», per «riaccendere la speranza» e per «camminare insieme da Aosta a Lampedusa». Come se il nuovo gruppo dirigente del Pd considerasse tali iniziative fuori tempo rispetto a un anno fa quando invece Enrico Letta fu impensierito da quel che si muoveva sul fronte pacifista.

Un grande tonico per l’esordio di Schlein sono state le schermaglie delle settimane che hanno preceduto il 25 aprile. Curiosamente, però, in Europa furono presi più sul serio, ventinove anni fa, i rischi di deriva autoritaria del primo Berlusconi, di quanto sia accaduto adesso con il debutto di Giorgia Meloni. Fuori dai nostri confini, l’allarme fascismo è stato scarso. Anche nel mondo delle arti che pure nel 1994 si mostrò assai incline a questo genere di apprensione.

In ogni caso il Pd schleiniano mostra di avere fiato — e, a quanto pare, sostegno tra i propri elettori — talché potrebbe andare avanti ancora per mesi (magari per anni) nelle polemiche quotidiane che traggono spunto da voci dal sen fuggite ad esponenti della destra. A volte si ha quasi l’impressione che quelle «gaffe» governative siano intenzionali, parole gettate lì da navigati rappresentanti della maggioranza nella certezza che qualcuno abboccherà e ne seguirà un battibecco. Battibecco destinato a rinfrancare i settori dei due schieramenti più sensibili alle ragioni della propria identità.

Rassegniamoci perciò: le cose andranno avanti così. A lungo. Queste baruffe quotidiane sono un tonico per la sinistra e la destra non sembra darsene pena. D’altra parte, per la sinistra sarebbe terribilmente più complicato indicare una prospettiva diversa. Ad esempio, una via credibile per tornare al governo sospinti da un voto che consenta alla sinistra di conquistare la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Nel decennio scorso, la destra, pur travagliata da un’infinità di disavventure, fu in grado di mantenere un proprio impianto di struttura (in fin dei conti quello berlusconiano del ’94) che le ha permesso al momento opportuno di serrare i ranghi e vincere le elezioni. Se perdeva pezzi, altri ne guadagnava. Con il partito di un immarcescibile Berlusconi lì a garantire nei confronti dell’Europa e quello di Giorgia Meloni che, dall’opposizione, era stato capace di intercettare (assorbendole) le perdite della Lega di Salvini. E di conquistarsi, in virtù dell’essersi schierato dalla parte della Nato e dell’Ucraina (oltreché dei buoni uffici di Mario Draghi), un’immagine tutto sommato rassicurante per i Paesi d’oltreconfine.

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