Perché il governo deve votare no
Tornando alla traiettoria tecnica stabilita da Bruxelles, essa deve assicurare che il rapporto debito/Pil alla fine dei quattro anni scenda in modo “plausibile”. E qui veniamo alla seconda criticità. Che cosa significhi “plausibile” in termini di tagli alla spesa verrà deciso dalla Commissione caso per caso. I governi non potranno, pertanto, conoscere ex-ante la velocità dell’aggiustamento richiesto, una mancanza di trasparenza che non faciliterà né la definizione del Piano né la comunicazione dal punto di vista politico. Vi è un altro aspetto che resta ambiguo. È quello relativo al grado di rischio. Nella prima versione della riforma, gli Stati membri venivano suddivisi – sempre da Bruxelles – in tre “categorie di rischio” corrispondenti a diversi livelli di debito: sostanziale, moderato e basso. Nel testo pubblicato ieri non è vi un esplicito richiamo a questa suddivisione. La Commissione fa semplicemente riferimento ai Paesi che presentano rischi “sostanziali”, senza specificare quali siano tra coloro che superano il 60 per cento. Per loro è previsto che, in caso di non rispetto del Piano, la procedura di disavanzo eccessiva scatti in maniera automatica. Tra questi vi sarebbe senza dubbio l’Italia. Un ulteriore aspetto problematico è quello relativo alle riforme e agli investimenti. Oltre all’entità dei tagli annuali di spesa, Bruxelles chiede che chi presenta squilibri macroeconomici eccessivi (ad esempio, tassi di disoccupazione troppo elevati o dinamiche della produttività modeste) li corregga. Non a caso il Piano elaborato dai singoli Stati si chiamerà “piano fiscale/strutturale”. Esso deve includere azioni mirate di politica economica (leggi riforme) e investimenti. La logica è quella di replicare lo schema del Next Generation EU (Ngeu). L’analogia è, però, errata. Il Ngeu utilizza debito europeo mentre le regole di bilancio limitano quello nazionale. Inoltre, ripetendo il modello Ngeu, la Commissione acquisisce il potere di esaminare le riforme di un determinato Paese. Si tratta di un potere di valenza politica, a meno che si ritenga che le riforme siano generalmente di natura tecnica. Vale la pena ricordare che, attualmente, solo l’Italia, la Grecia e Cipro hanno squilibri macroeconomici significativi, e dunque i nuovi poteri della Commissione si applicherebbero unicamente nei confronti delle politiche strutturali di questi ultimi. Peraltro, il nuovo schema prevede che in caso di non correzione degli squilibri, venga aperta la procedura di disavanzo eccessivo. In questo modo, i vincoli del Patto di stabilità verrebbero estesi a tutte le politiche economiche, in particolare di quelle dei Paesi ad alto debito.
In conclusione, la revisione del Patto di stabilità e crescita – di fatto – mette sotto stretta osservazione solo alcuni Paesi, quelli con alto debito e con squilibri macroeconomici eccessivi. A cominciare dall’Italia. Per questo il governo dovrebbe valutare con attenzione i rischi derivanti da questa nuova procedura. Ciò non significa che il debito non debba essere tagliato oppure che il divario rispetto ai nostri partner europei in termini di indicatori macroeconomici non debba essere ridimensionato. Al contrario. Tuttavia, ciò non può avvenire attraverso un sostanziale rafforzamento del vincolo esterno sulle politiche economiche come accadrebbe nel caso in cui la proposta della Commissione venisse approvata. Il risultato ultimo sarebbe quello di un incremento delle tensioni antieuropee. Di cui non abbiamo bisogno.
LA STAMPA
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