La Repubblica dei narcisi: da almeno vent’anni non c’è leader che non abbia ceduto alla vanità

Flavia Perina

La vanità è sentimento chiave della politica italiana almeno da un ventennio e non c’è leader che non abbia ceduto alle lusinghe di Narciso, dalle bandane giovanilistiche di Silvio Berlusconi ai fazzoletti quadri-puntuti di Giuseppe Conte che furono persino oggetto di cliccatissimi tutorial: «Il tessuto deve essere prezioso, il bordo cucito a mano», spiegava il sarto Maurizio Marinella, anche se era un altro, Maurizio Talarico, ad attribuirsi il merito di aver insegnato il trucco all’ex premier. In mezzo c’è il giubbotto da Fonzie di Matteo Renzi (rivendicato sempre come un elemento di valore) e le indimenticabili scarpe di Massimo D’Alema e i cachemire di Fausto Bertinotti e di recente persino il regalo di Natale acquistato da Louis Vuitton (una sciarpa) dal più improbabile dei clienti del lusso, Pierluigi Bersani, o la cravatta verde a torso nudo di Matteo Salvini sulla copertina di Oggi.

La vanità estetica, si dice, nella Prima Repubblica non esisteva, era considerata un peccato. Mica è tanto vero. Pure allora c’era chi la coltivava in silenzio. Francesco Cossiga, secondo indiscrezioni mai smentite, disegnò personalmente la divisa del suo consigliere militare per migliorarne l’eleganza e quindi accompagnarsi a un personaggio più autorevole. L’eterno maglione nero di Pannella, i guanti di Luigi Pintor e i jeans di Emma Bonino (con su scritto: “Ne hanno viste di tutti i colori”) finirono addirittura all’asta per finanziare i Radicali: cos’erano se non espressioni del power dressing dell’epoca, icone tangibili di leadership ma pure segnali di temperamenti votati all’esibizione di sé, un po’ per motivi politici e un po’ per propensione personale?

Ora che c’è cascata pure Elly Schlein, con la sua armocromista che consiglia il color glauco, sembra che la vanità sia solo roba sua. Il Diavolo veste Prada, dicono, ma non dovrebbe vestire la sinistra perché quel Diavolo è roba di destra e a loro va lasciata: agli outfit di Daniela Santanché, agli Armani di Giorgia Meloni, alle messe in piega estreme di Maria Elisabetta Casellati. E tuttavia si osserverà che senza vanità, senza estetica, senza personaggismo, la politica non possiamo neanche immaginarla più, e che persino l’ostentazione della non-vanità (i contestatissimi stivali di Aboubakar Soumahoro, i sandali senza calzini del grillino Carlo Martelli) è in realtà un atto immodesto, un modo di mettersi in mostra. È l’accappatoio al supermercato del Grande Lebowsky: vengo qui come mi trovo, non sono vanitoso. Sì, vabbè…

La vanità è il motore interiore di ogni comizio, e volendo pesare – lo si dovrà fare, adesso che ci sono due donne in vetta alla politica italiana – la consistenza vanitosa di maschi e femmine sulla scena del nostro potere non c’è dubbio che vincano i maschi, a mani basse. Il Dandy (Conte), il Ruspante (Salvini), il Giovane (Renzi), il Professore (Enrico Letta), il Barricadero (Alessandro Di Battista), il Bravo Ragazzo (Luigi Di Maio), l’Irriducibile (Ignazio La Russa), il Moderato (Giancarlo Giorgetti), il Disinibito (Carlo Calenda): ognuno coltiva il suo messaggio estetico con accorgimenti costanti, che non riguardano solo l’abbigliamento ma anche per così dire gli accessori, le fidanzate e le mogli, gli assistenti, le auto, le biciclette o le moto (anche d’acqua), le vacanze, tantoché il peccato al color salvia della consulente di Elly Schlein sembra davvero poca cosa.

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