Primo maggio di resilienza tra economia e armocromia

Il nostro problema, ancora e sempre, si chiama debito pubblico. Da qualche settimane, vedi i report di Goldman Sachs e Moody’s, l’Italia è tornata sotto osservazione sui mercati. Lo spread è risalito a quota 185, il rendimento dei Btp è intorno al 4,17%. Il giro di vite sui tassi di interesse, tra Fed e Bce, ci fa sanguinare: solo quest’anno, per il maggior onere sul debito, pagheremo 74,6 miliardi in più, cioè 1.398 euro per ogni italiano. Altro fardello, sulla schiena del travet che lavora e sopporta un’imposizione media del 40% (contro il 21 sulle rendite immobiliari, il 20 su quelle finanziarie e il 15 sui lavoratori autonomi). La Sorella d’Italia, in missione a Londra, è riuscita a disinnescare la miccia: il “caso Italia” sui mercati, al momento, non esplode. Ma basta un niente. Avremmo una chance, formidabile e irripetibile. Ma ce la stiamo giocando. È il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, “l’ineguagliabile opportunità” di cui parla Mattarella.

“L’elefante nella stanza”, come lo chiama la Suddeutsche Zeitung in un editoriale di qualche giorno fa. Il Pnrr che il Belpaese – come da Venere pizza e mandolino di “Open to Meraviglia” – non riesce ad attuare. Rischiando così di sprecare la sua “grande occasione”. Visto dai tedeschi, “ormai è innegabile: l’Italia non fa quanto le era stato richiesto”. Dopo la nascita del nuovo governo Bruxelles e Berlino avevano aperto una linea di credito a Meloni: se gli “aspiranti populisti di destra” a Roma avessero seguito la dottrina Draghi su politica estera e politica economica, l’Europa avrebbe chiuso un occhio sulle scelte sovraniste e illiberali di politica interna.

Sette mesi dopo, l’impegno italiano è fermamente mantenuto sull’Ucraina, mentre è palesemente disatteso sul Pnrr. L’editorialista Ulrike Sauer va giù con l’accetta: Roma ha accumulato “gravi ritardi” sul Piano, rischia di compromettere “un programma senza precedenti per il futuro dell’Italia” e di perdere l’ultimo treno “per superare la pluridecennale debolezza sul fronte della crescita economica”. Mettiamo pure tra parentesi questa paradossale spocchietta tedesca, che cade proprio nel trimestre in cui l’Italia cresce più del doppio della Germania. Purtroppo contano le tendenze di lungo periodo (da quasi trent’anni il Pil tricolore cresce meno della metà di quello medio europeo) e pesano le pregiudiziali psico-politiche che i partner conservano nei nostri confronti.

Se limitiamo il giudizio al Pnrr, abbiamo poco da rammaricarci dei morsi del solito pastore tedesco. I ritardi ci sono, lo sappiamo e li raccontiamo da settimane. Secondo l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, sui 156 obiettivi collegati alle 63 riforme concordate con Bruxelles ne risultano “conseguiti” solo 73, mentre 53 sono ancora “da avviare” e solo 30 sono “in corso”. Per questo la terza rata da 19 miliardi che aspettiamo dall’Unione è appesa alla riformulazione del Piano che Palazzo Chigi ha rinviato a fine agosto. Così è quasi scontato che le sedicenti formiche del Nord ricomincino a bastonare le solite cicale del Sud. “La responsabilità dell’Italia nei confronti di tutti gli europei è enorme”, conclude la Suddeutsche. Perché il governo di Roma beneficia più di ogni altro Paese del “maggior gesto di solidarietà della storia europea”. E perché, dopo aver ottenuto la mutualizzazione dei debiti comunitari che ha sempre richiesto, ora si comporta come se non avesse bisogno di quella montagna di soldi. Se Meloni rinunciasse anche solo a una parte dei fondi del Next Generation Eu, in realtà, “rinuncerebbe alla crescita, ai posti di lavoro, all’aumento del gettito fiscale e quindi alla riduzione del debito pubblico”. I “populisti di destra” finirebbero per dare ragione ai nordeuropei, che “da sempre considerano rischioso dare più spazi di manovra all’Italia in materia di conti pubblici”.

Così ragionano i superbi teutonici, oggi come ai tempi di Ludwig Erhard e della Scuola di Friburgo. Hanno ragione? Hanno torto? Non serve neanche stabilirlo. È la dura realtà dei fatti. E con questa i Fratelli d’Italia si devono misurare, in attesa di capire dove porteranno i traffici di Manfred Weber per apparentare le famiglie dei conservatori e dei popolari in vista del voto europeo del 2024. L’Unione oggi è spappolata e indebolita, tra il velleitarismo di Macron che cerca gloria oltre frontiera e l’indecisionismo di Scholz che non riesce a far correre la Coalizione Semaforo. Ma l’Italia ha bisogno di buoni alleati per sostenere le sue ragioni. Non solo e non tanto sui migranti o sul Pnrr, dove si vede siamo perdenti in partenza. Quanto piuttosto sul nuovo Patto di Stabilità e sul Mes, gli altri due dossier dai quali dipendono la tenuta economico-finanziaria del Paese e l’entità dei sacrifici ai quali sarà chiamato nei prossimi anni. Con la proposta di revisione del Patto formulata da Bruxelles il rispetto dei nuovi parametri di deficit e di debito si traduce, per il nostro bilancio pubblico, in un’ipoteca preventiva da 64 miliardi, che può essere concentrata in quattro anni o spalmata in sette. La reggiamo, ma anche in questo caso riducendo o addirittura azzerando tutti gli spazi di manovra in bilancio. Se invece vogliamo rimandare quell’ipoteca al mittente, sapendo di avere contro in partenza Germania, Olanda e Austria, dobbiamo fare asse con la Francia, piuttosto che continuare a flirtare con Orban. Quanto al Mes, non ha più senso combattere come l’ultimo giapponese sull’isola deserta, mentre tutti gli altri hanno già ratificato. E ne ha ancora di meno perdere la faccia in Europa, per tentare di salvarla a Roma. Meloni sa bene cosa è giusto fare. Riponga in fretta quest’ultimo feticcio ideologico della passata stagione eurofobica, quando in sogno, affacciata dal balcone di Palazzo Venezia, gridava ai suoi patrioti “vincere, e vinceremo!”. Quel tempo è finito, vivaddio. Oggi, se va di lusso, si può strappare un pareggio. Buon Primo Maggio a tutti.

LA STAMPA

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